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09/01/2016 06:50:00

Calogero Mannino e il supplizio della gogna. I segni della galera e i processi mediatici

 Una volta Roma era il suo quartier generale, adesso vi fa ritorno per non più di ventiquattro ore. Mi raggiunge a Trastevere. Ha l’aria stanca, l’onorevole Calogero Mannino. Un risotto ci tiene compagnia, io annoto parole e umori sul quaderno, lui compulsa l’iPad e rovista tra le carte del processo. O, meglio, dei processi in quella Trinacria che gli ha donato non già i natali ma una ridda di veleni. E’ nato africano, poteva diventare americano, alla fine è rimasto siculo per tutta la vita. “Se quel giorno della primavera del ’50, sulla nave che dall’Eritrea ci conduceva a Napoli, mia madre Ninetta avesse ottenuto l’agognata green card, sarei cresciuto negli Stati Uniti e oggi sarei un avvocato benestante, forse in pensione. Invece il permesso fu negato e, a malincuore, la mamma ci portò a Sciacca dai nonni”. Il papà di Mannino fa fortuna in Eritrea come importatore di prodotti alimentari, la moglie lo raggiunge nel ’38 e l’anno dopo, ad Asmara, vede la luce Calogero, detto Lillo. Nel ’41 l’Eritrea è sotto l’occupazione militare inglese. Nel ’52 le Nazioni Unite negano agli italiani l’amministrazione fiduciaria e dichiarano il paese federato con l’impero etiope. Così la famiglia Mannino fa ritorno in patria. “Il fascicolo a mio carico è titolato ‘Scipione l’africano’, un travisamento storico: Scipione sconfisse duramente Annibale e i Cartaginesi. Dopo l’assoluzione posso dire che la scelta del personaggio storico non ha portato fortuna alla pubblica accusa”. E a lei? “Se sono ancora vivo, è un miracolo. La mia tortura giudiziaria è durata venticinque anni, dalle aule di tribunale si è prolungata sui giornali e nelle tv. Una così lunga e devastante pressione accusatoria si risolve in un’assoluzione, l’ennesima, e in una vita, la mia, irrimediabilmente stuprata”. Non si può tornare indietro, lei non è cresciuto in America, non è il lawyer di successo che sua madre sognava. “Lei ci aveva visto lungo, voleva tenersi lontano dalla Sicilia. Era una donna di un’intelligenza sottile e captatrice. Se mi fossi trasferito Oltreoceano, oggi sarei un nonno sereno. Invece, a settantasei anni, devo lottare per non soccombere”. Tutti pensano che un ex ministro e parlamentare abbia mezzi infiniti per difendersi. “Ho venduto tutto quel che potevo. Guardi, si avvicini – mi mostra l’Ipad – queste sono le email dei compratori dei quadri di cui mi sto sbarazzando. Sono alla vergogna dell’aiuto di un figlio che dovrei essere io ad aiutare. Ho debiti con le banche e non ho ancora saldato i conti con i miei eccellenti avvocati, Carlo Federico Grosso, Grazia Volo e il collaboratore Cristiano Bianchini. La cantina vinicola di Pantelleria, l’unica distrazione di questi anni, è andata in liquidazione. Nella notte di Natale qualcuno ha aperto le valvole delle vasche disperdendo passiti e vini per il valore di 750 mila euro. ‘Giallo al color del passito’, ha titolato il Fatto quotidiano. Il giallo è rimasto. L’autore ignoto. Quanto a me, non ho più la salute per dedicarmi ai vigneti. E neanche la voglia di restare a Palermo. Mio figlio ci vorrebbe a Milano, per noi due basterebbe una stanza e mezzo. E io potrei fare il nonno a tempo pieno”. 

 

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Nelle notti di questa lunga notte Mannino dorme tra le quattro e le cinque ore, poi comincia un pellegrinaggio inquieto da una stanza all’altra, avanti e indietro, un pezzo di pane gli dà sollievo. “Gli zuccheri sono stati un antidoto alla mia nevrosi. Perché la gogna giudiziaria si perpetua per oltre vent’anni? Perché si parla di ‘trattativa’, ammesso che ci sia stata, e non di ‘intrigo’? Io voglio parlare di ‘intrigo’. Perché alcuni apparati dello stato, inquirenti in testa, si accaniscono contro di me con un tale vigore?”. Lei si sente un perseguitato. “Come può un innocente non sentirsi un perseguitato dopo anni di processi che non gli risparmiano neppure la galera? Lo ammetto, mi sento un perseguitato. Mi hanno sequestrato la vita. E domando: perché proprio a me? E’ questo l’interrogativo che i Travaglio e i Caselli e gli Ingroia vogliono eludere. Per il primo, che ho definito ‘guitto’ a ragion veduta (si esibisce in requisitorie teatrali che gli valgono successo e denari), per lui contano i fatti, non i reati, così ha scritto all’indomani della mia assoluzione. Ne consegue che il mio processo è di rilevanza pubblica se mi accusano, vale quanto un fico secco se mi assolvono. Ingroia invece ha rilasciato un’intervista in cui reclama le ‘royalties’ per le requisitorie pubblicate in un libro dall’amico, e compagno di vacanze, Travaglio, e mi ammonisce dal ‘non esagerare’ perché è vero che sono stato assolto ma per insufficienza di prove. E questo equivarrebbe, a detta del giurista Ingroia, a un ‘bicchiere mezzo pieno’. Peccato che io sia stato assolto per non aver commesso il fatto”.

Nella stessa intervista a Libero l’ex pm e leader di Azione civile annuncia che racconterà in un romanzo i contenuti delle conversazioni telefoniche del presidente emerito Giorgio Napolitano. “Nessuno si chiede come mai Ingroia continui a usare quei toni di sfida? Con una baldanza inaudita egli sferra un attacco selvaggio al procuratore capo di Roma Pignatone particolarmente ‘affezionato – a suo dire – ai procedimenti che riguardano la famiglia Ciancimino’. Ma com’è possibile che un uomo nella sua posizione, che ha inanellato una serie d’insuccessi, ostenti una simile arroganza? Da chi si sente protetto? Per menti immaginifiche come la sua, il fatto che all’epoca del maxiprocesso alcune informative di polizia e servizi illustravano l’ipotesi di un rischio attentati, non solo contro di me ma anche contro altri politici, magistrati, ufficiali dei Carabinieri, motiverebbe l’avvio della presunta trattativa con i capi di Cosa nostra. Si dà il caso che io all’epoca fossi ministro, dettaglio non dappoco, e in tale veste segnalare ai vertici delle istituzioni e delle forze dell’ordine il clima di pericolo, che mi era stato riferito dal dottor Giovanni Falcone in persona già nel settembre del ’91 (prima dell’omicidio Lima), era un mio preciso dovere. Cosa nostra intendeva attuare una strategia terroristica volta a destabilizzare le istituzioni. Erano i mesi del maxiprocesso, lo stato arrestava e processava i mafiosi, sapevamo di essere tutti in pericolo. Nondimeno avevamo deciso di combattere la mafia. Abbiamo vinto la nostra battaglia. Lo Stato ha vinto. ‘Contro la mafia, costi quel che costi’ non era soltanto un manifesto affisso nella tarda primavera del ’91 in tutte le città siciliane. Era anche una linea politica, un programma. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono due eroi civili caduti sul campo”. Lei li ha conosciuti entrambi. “Il dottor Falcone era una mente finissima. Il presidente Cossiga in due libri di memorie e nella testimonianza resa nel corso del processo a mio carico per concorso esterno ha ricostruito l’iniziativa che portò Falcone al vertice dell’ufficio Affari penali al ministero di via Arenula. Fui io a introdurre per la prima volta a Cossiga il dottor Falcone, poi nominato su proposta del Guardasigilli Claudio Martelli. Capitava di incontrarsi con le rispettive mogli al teatro massimo di Palermo, una volta andammo insieme a un concerto di Gino Paoli e Ornella Vanoni, ma i giornali riportarono la notizia e convenimmo di evitare ogni esposizione pubblica fino al termine del maxiprocesso. Borsellino lo conoscevo dai tempi dell’università, entrambi studenti di Giurisprudenza a Palermo, io a capo dell’Intesa cattolica, lui del Fronte universitario d’azione nazionale. Su linee politiche diverse ma capaci di andare insieme in pizzeria”. Per i chierici dell’antimafia lei li avrebbe traditi entrambi. “Credo che anche alcuni scandali recenti dimostrino che non è tutto come appare”. Ce que’on voit et ce qu’on ne voit pas, d’accordo. Ma che cosa non si vede, secondo lei? “Io pongo alcuni quesiti. Com’è possibile che una certa antimafia abbia dichiarato guerra ai protagonisti della lotta alla mafia in una singolare alleanza con chi, dei mafiosi, era connivente e complice? Com’è possibile che una certa antimafia abbia fatto proprie le ragioni della mafia nell’avversione a Falcone? Come non ricordare il processo al Csm, il contrasto parlamentare ai disegni di legge del governo Andreotti messi a punto da Falcone, la triste puntata di Samarcanda nel maggio 1990”. Fu allora che, ai microfoni di Michele Santoro, Leoluca Orlando accusò Falcone di tenere chiusi “dentro i cassetti del Palazzo di giustizia” i documenti necessari a fare chiarezza su delitti eccellenti. “Come vede, non è tutto come appare. Per esempio è un caso che Ingroia, nelle vesti di avvocato, difenda i presunti complici di Massimo Ciancimino, condannato in via definitiva per riciclaggio del patrimonio mafioso del padre? Non si può rispondere a questi interrogativi senza ricorrere a una parola, ‘intrigo’. Perché la chiamano ‘trattativa’ e non ‘intrigo’?  Probabilmente non esiste nella storia d’Italia un intrigo come quello che ha innervato la parabola mafiosa e antimafiosa. Sa come li chiamo quelli che oggi nei tribunali e nelle piazze si riempiono la bocca dei nomi Falcone e Borsellino? Eroi della Sesta giornata”. Le giornate di Milano furono cinque. “Appunto, sono una comitiva di commedianti. In diversi casi sono gli stessi che dall’ottobre del ’91, quando Giovanni fu costretto a difendersi da accuse farneticanti davanti al Csm, fino al maggio del ’92, la strage di Capaci, condannarono Falcone a una morte lenta. Lo ammazzarono ben prima dell’esplosione sull’autostrada A29”.

 

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“1991, governo Andreotti, io sono ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Alla fine dell’estate il settimanale L’Europeo pubblica il contenuto delle dichiarazioni rilasciate dal pentito Rosario Spatola al procuratore di Trapani Francesco Taurisano. Da qui comincia il mio supplizio”. Secondo Spatola, nell’estate del 1981 “Caliddu Mannino” (all’epoca sottosegretario al Tesoro) si sarebbe recato a Campobello di Mazara, nel trapanese, per ringraziare il boss del paese Natale L’Ala per i voti procacciati al candidato democristiano Francesco Canino in occasione delle elezioni amministrative. “Offro le mie dimissioni al presidente del Consiglio e al capo dello stato Cossiga, entrambi le respingono con fermezza e mi invitano ad attendere l’esito delle indagini. Io ho una sola certezza: in quell’anno non mi sono mai recato a Campobello e soprattutto Canino non è mio amico. In quella tornata elettorale appoggio un altro candidato, Domenico Cangelosi, che non viene eletto”. Interviene il vicesegretario della Dc Sergio Mattarella: “Quando Mannino dice che nel 1981 appoggiava un altro candidato dice una cosa incontestabilmente vera. In questa storia ci deve essere più attenzione alla verità”. Borsellino, procuratore a Marsala, salta sulla sedia perché Spatola è una sua vecchia conoscenza, l’ha interrogato un anno e mezzo prima senza carpirne le ‘rivelazioni choc’. Borsellino s’insospettisce e chiede la trasmissione degli atti, per competenza, al suo ufficio. Ma i verbali di interrogatorio con il sostituto procuratore di Trapani sono scomparsi. Borsellino si rende conto che Spatola è inattendibile, non gli crede, le accuse non trovano riscontro. Nel mese d’ottobre il tribunale dispone l’archiviazione, il caso è chiuso. Il 9 settembre dello stesso anno, 1991, in un articolo dal titolo “Brutta aria” pubblicato sulla Stampa, diretta all’epoca da Marcello Sorgi, Falcone esprime una “grande amarezza per l’approssimazione con la quale, dopo tanto tempo e tanti sforzi spesi per far riconoscere i connotati dell’organizzazione mafiosa, si finisce col mescolare nel calderone di Cosa Nostra tutto ciò che può assomigliargli. E per il modo in cui, se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del tuo partito, che invece risulterebbe suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso”. Falcone prende le difese del procuratore di Marsala, Borsellino, il quale per competenza chiede la trasmissione degli atti al suo ufficio e i giornali titolano “Silurato il magistrato antimafia”, quello di Trapani. “Ne consegue – scrive Falcone – che chi avrebbe reclamato la propria competenza sarebbe un magistrato insabbiatore”. Falcone ha già avuto a che fare con la “metamorfosi del pentito”. Nell’89, nel corso del maxiprocesso, il finto pentito Giuseppe Pellegriti addita l’europarlamentare democristiano Salvo Lima quale mandante degli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa. Le accuse non reggono alla prova dei fatti, e Falcone lo mette sotto inchiesta per calunnia aggravata e continuata in concorso con ignoti. “Quell’articolo del ’91 – ragiona Mannino – mette in guardia dai rischi connessi alla ‘gestione’ dei pentiti. Il collaboratore di giustizia può essere una trappola, uno strumento in una partita inquinata da interessi diversi dall’accertamento della verità. Contro Falcone si è già inaugurata la stagione dei veleni con l’esposto di Orlando al Csm, gli attacchi scomposti dei colleghi che lo accusano di subalternità al potere politico e avversano il progetto della superprocura antimafia e la legge sui pentiti a cui lui lavora alacremente”.

 

A sentire l’ex ministro Dc, il Requiem della Prima Repubblica non segue le note di Tangentopoli ma quelle, mortifere, di Capaci e via D’Amelio. “Gli assassinii di Falcone e Borsellino, a due mesi di distanza l’uno dall’altro, esercitano un involontario condizionamento della vita politica parlamentare. Nel ’92, tramontata la candidatura di Forlani, è eletto capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro, persona gradita a Craxi ma scelta da Violante e Occhetto. Da allora in avanti Violante diventa il punto d’equilibrio tra gli apparati, la magistratura e il Partito comunista (uscito sconfitto alle elezioni ma vincitore sul piano politico). E’ lui l’arbitro del destino della Dc. Le stragi di mafia mettono in crisi il rapporto tra il partito dei cattolici e l’opinione pubblica. Nella composizione del governo Amato la Dc viene marginalizzata. Dopo le dimissioni di Forlani, il Consiglio nazionale acclama segretario Mino Martinazzoli che l’anno dopo fonda il Partito popolare italiano: la Dc non esiste più”. Nel giugno del ’92, a cavallo tra le due stragi, viene pubblicato urbi et orbi l’anonimo del “Corvo 2”. Il documento di otto pagine, che assume un nome in continuità con l’anonimo del “Corvo 1” (quello che accusa Giovanni Falcone di aver “pilotato” il ritorno del pentito Totuccio Contorno al fine di sterminare i corleonesi, storici nemici della sua famiglia), riporta un incontro avvenuto tra Mannino e Totò Riina presso una sacrestia di San Giuseppe Jato a Palermo. “Entrambi i documenti costituiscono un classico esempio di disinformatia. L’anonimo del Corvo 1 espone inutilmente la vita di Falcone sull’altare della vendetta di Cosa nostra gettando discredito su uomini degli apparati come Vincenzo Parisi e Gianni de Gennaro. L’anonimo del Corvo 2 riporta il tentativo della Dc di rinnovare il partito liberandosi di Andreotti. In questo quadro a Mattarella e a Mannino è assegnato il compito di tagliare i rami secchi dalla pianta sana della Dc siciliana. Secondo il Corvo, per tentare la via dell’accordo io mi spingerei a incontrare il boss Totò Riina con la scorta, non una bensì due volte”. Le rivelazioni anonime distolgono le energie giudiziarie e di polizia dalla caccia agli autori della strage di Capaci. Mannino è tenuto fuori dal governo. “Quando polizia, Ros, Sco e carabinieri chiudono l’indagine sugli autori del Corvo 2, commettono un errore perché rinunciano a individuare gli autori dell’anonimo. Il caso è archiviato”.

 

Siamo ormai al gennaio del ’93 quando, nel tripudio di teleobiettivi per la cattura del boss Riina, Gian Carlo Caselli s’insedia a capo della procura di Palermo. Il colonnello Mori e Sergio de Caprio (il Capitano Ultimo), anche loro finiti successivamente nel tritacarne mediatico giudiziario, già processati e assolti per la mancata perquisizione del covo di Riina, consegnano a Caselli il boss dei Corleonesi. “Insediatosi in procura, Caselli affida ai pm Ingroia e Teresi, autori del processo sulla presunta trattativa, la riapertura delle indagini sull’anonimo del Corvo 2. Sugli ipotetici fatti tracciati in quelle pagine le indagini non portano a nulla. Io però sono iscritto nel registro degli indagati. Vorrei riprendere le parole di Ingroia nell’intervista già citata. Lui parla delle ‘astuzie dei sostituti procuratori’ e dice: ‘Ora che sono dall’altra parte della barricata ho il vantaggio rispetto ai miei colleghi avvocati di poter smascherare certi espedienti furbetti’, testuale.  Così dicendo, a distanza di oltre vent’anni, mi aiuta a comprendere che cos’è accaduto in quel frangente a Palermo e in che modo hanno agito lui e Teresi. Non potendomi colpire per l’anonimo del Corvo 2, fanno partire un’indagine parallela perché, cito sempre l’ex pm, ‘ci sono i cosiddetti stralci a catena che permettono con un gioco di scatole cinesi di tenere un filone d’indagine facendolo emigrare da un fascicolo in scadenza a un altro’. La scadenza giunge quando nell’agosto del ’94, dopo avermi notificato un avviso di garanzia per 416 bis (associazione di stampo mafioso), i Ros guidati da Mori consegnano al procuratore capo Caselli un pentito farlocco, Gioacchino Pennino, ‘il Buscetta della politica palermitana’”. In anni più recenti, Mori sarà accusato di aver preso parte con lei alla cosiddetta trattativa. “Esattamente. Pennino è un medico chirurgo della Palermo bene che ha fatto fortuna con i laboratori di analisi cliniche e i casinò in Croazia. E’ sotto inchiesta, si trasferisce in Croazia fin quando un bel giorno, nel marzo del ’94, è arrestato ed estradato per associazione a delinquere (l’aggravante mafiosa non è prevista in quello stato). Rinuncia inaspettatamente ai ricorsi presentati dai difensori e decide di collaborare accettando l’estradizione per associazione mafiosa. Pennino si definisce ‘un vero cataro’. Parla, anzi straparla, e io vengo spedito in galera”. Nel ’97 il Foglio pubblica gli stralci della lettera inviata da Pennino alla Commissione centrale di protezione con la lista dettagliata dei suoi debiti e crediti, chiedendo allo Stato tre miliardi di lire. Nello stesso anno si rincorre la notizia del “capriccio di Pennino”, la Ferrari che il pentito vuole comprarsi di tasca propria; per accontentarlo senza violare la copertura al ministero intestano l’auto a un impiegato. “Non era certo l’unico pentito a ricevere soldi dallo stato. Durante un’udienza del processo Andreotti, Baldassarre Di Maggio ammise di aver ricevuto dallo stato mezzo miliardo di lire e qualche tempo dopo anche Salvatore Cancemi rivelò i suoi compensi: due milioni e ottocentomila lire al mese. Nel processo per concorso esterno, quello per il quale sconto due anni agli arresti, io non vengo semplicemente assolto in Cassazione, come sostiene sbrigativamente Caselli nel libro fresco di stampa. Vengo assolto in primo grado nel 2001, poi condannato in Corte d’appello con il giudice relatore Luciana Razete (figlia di un cancelliere in servizio presso il tribunale di Palermo), poi le sezioni unite della Cassazione annullano la condanna e rinviano a una diversa sezione della Corte d’appello che mi assolve perché il fatto non sussiste. Nel 2010 la Cassazione, quinta sezione, conferma l’assoluzione”.
 Nel giudizio dinanzi alle sezioni unite, il procuratore generale, nel richiedere la sua assoluzione, afferma: “Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”.  “E’ per questa ragione che, quando Ingroia fa la voce grossa e rinnova accuse nei miei confronti, falsifica la verità”. Ma alla fine si scoprirà la paternità del Corvo 2? “Anni dopo, una sentenza del tribunale di Milano attesterà che il documento è stato prodotto in ambienti vicini all’Alto commissario per la lotta alla mafia Domenico Sica sulla base delle dichiarazioni di un tale Angelo Sciortino. In un procedimento separato risulterà che Sciortino era informatore dei carabinieri ai quali era stato introdotto da un sostituto procuratore in servizio a Termini Imerese. Il nome? Vittorio Teresi. E chi imbastisce le indagini a mio carico per la presunta trattativa stato-mafia? Teresi insieme a Ingroia”.

 

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“Il carcere è il mondo dell’assoluto arbitrio. Ma non riuscirà a farmi parlare di questo, il pietismo non mi appartiene”. Le rivelazioni di Pennino fanno scattare le manette. E’ il 13 febbraio 1995. Mannino è accusato di aver stretto un patto con la mafia per avere voti in cambio di favori. Sarà assolto. Intanto la polizia lo traduce all’Ucciardone, una cella in fondo al corridoio, al 41 bis per nove mesi, la prima ora d’aria dopo 37 giorni di isolamento. “Dietro le sbarre ho perso la salute. Mi sono ammalato di carcinoma alla vescica e alla prostata. Quando dopo oltre un mese mi hanno permesso di camminare in un’area recintata di pochi metri quadrati, coperta da una rete metallica, una vera e propria gabbia, ho avuto quasi le vertigini, il mio volto era di nuovo sfiorato dall’aria. Respiravo. Dopo pochi istanti, dalle finestre circostanti si levarono urla e fischi. ‘Mannino, la vulisti la legge sui pentiti? Ora ti teni lu Penninu’, mi gridavano i mafiosi reclusi, come me, al 41 bis. Mi rimproveravano la legge sui pentiti. Dedico questo ricordo a Caselli perché ne abbia breve memoria ogni volta che varca la soglia di una chiesa”. Il carcere è una livella, ministri e furtaroli, tutti uguali. “Le racconto un episodio. Una domenica pomeriggio me ne sto sdraiato sulla brandina metallica quando all’improvviso avverto un fetore infernale. Abbasso gli occhi e scorgo le mie ciabatte galleggianti su un mare di merda. La cella è invasa dal liquame proveniente da una tubatura rotta. Mi tolgo i calzini, alzo i pantaloni e afferro la scopa. ‘Guardia, agente, brigadiereeee’, chiedo aiuto ma nessuno risponde”.

 

Lei in carcere ha perso 43 chili. “Non avvertivo più neanche la fame. E poi c’era il carcinoma che avanzava. Una volta trasferito a Rebibbia, i medici m’imposero l’intervento chirurgico e così ottenni i domiciliari”. Una volta mi ha raccontato degli strepiti, pugni e calci, che udiva nel cuore della notte. “Il carcere è luogo di sopraffazione e omertà. Non è un caso che io non spenda mai una parola in favore degli agenti penitenziari”. Nei giorni scorsi in Commissione giustizia al Senato è approdata una proposta di legge per concedere “spazi di intimità” ai detenuti. “L’astinenza forzata li trasforma in assatanati, le violenze sessuali sono all’ordine del giorno”. Nell’insistere sulla quotidianità dietro le sbarre mi sembra di rinnovargli io stessa una violenza. Mi taccio. “Dal giorno in cui sono uscito dal carcere ogni mio sforzo è teso non alla rimozione ma all’oblio, come insegna Sant’Agostino. Il ricordo di quel che ho vissuto è lì ma non deve più far male”.

 

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I processi Andreotti e Mannino suonano il de profundis della Dc. “Il progetto di Violante va a compimento. Come non ricordare l’irrituale interrogatorio al ‘boss dei due mondi’ Tommaso Buscetta ad opera del magistrato e presidente della Commissione antimafia della Camera Violante. Costui celebra un processo fuori dal processo. L’imputato è Andreotti”. A Violante Buscetta rivela l’esistenza del cosiddetto “terzo livello”, ossia il legame della mafia con il mondo politico. E’ lì che si apre il processo ad Andreotti. “Mi ritrovo, a un tempo, vittima di un progetto politico, quello di far fuori la Dc, e vittima delle minacce mafiose. Violante e D’Alema cavalcano l’inchiesta Tangentopoli in chiave anti-Psi e i processi di mafia in chiave anti-Dc. Nel partito si registra una spaccatura profonda tra quanti pensano che il compito da porsi, sotto l’onda d’urto delle inchieste, sia portare i comunisti al governo e chi invece pensa che abbandonare i socialisti all’inimicizia dei comunisti sia un grave errore. Io mi oppongo all’idea di un’alleanza con i comunisti di Violante: portarli al governo sarebbe un suicidio. Già allora s’intravvede in modo lampante una convergenza, forse occasionale, tra il piano terroristico di Cosa nostra (che vuole vendicarsi del maxiprocesso) e la strategia politica del Pci (che vuole liberarsi dei democristiani)”.

 

 

In questa intersezione la presunta trattativa assumerebbe le sembianze dell’intrigo. “Le ripeto quanto ho detto in aula, anche se non intendo sottopormi ad alcun processo oltre a quello già celebrato. Io non so se una ‘trattativa’, nel senso inteso dalla pubblica accusa, sia mai esistita. Ammesso che sia esistita, io non vi ho preso parte”. Ma che cos’è una trattativa? O meglio che cosa non è una trattativa? “Ha colto il punto. La gestione di un pentito è in sé una trattativa. Un mafioso decide di parlare nel corso di un colloquio con il pm, la collaborazione prevede sempre una contropartita. Le dichiarazioni di Pennino sono prese per oro colato e io finisco in galera. Quando invece il pentito Giovanni Brusca riferisce di un incontro con Violante nel ’91 sull’aereo Palermo-Roma, l’ipotesi è giustamente respinta da tre procuratori per manifesta infondatezza. Tuttavia non capisco la differenza di trattamento. Se devo dirla tutta, Ingroia ci ha visto lungo a mollare prima del dibattimento, rimane il più sveglio di quelli in campo. Questi pm della trattativa sembrano un branco di reduci, gli ultimi giapponesi nella giungla ignari che la guerra si sia già conclusa”. Per lei è giunto il momento dell’armistizio? “La mia guerra l’ho combattuta e l’ho vinta. Vorrei soltanto essere lasciato in pace”.

 

Annalisa Chirico - Il Foglio del 12 Dicembre 2015



Rassegna Stampa | 2024-03-19 17:00:00
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