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11/03/2011 10:14:24

Scrive Valerio Vartolo, sulla riforma della giustizia di Berlusconi

unicamente, sfuggire ai suoi processi, celare il suo oscuro passato di imprenditore e punire la magistratura tutta: non a caso ha detto, lui tesserato P2, che con questa riforma Mani Pulite non sarebbe stata possibile. Stessa vocazione è quella dei suoi proseliti, riuniti in un partito la cui unica ragione sociale è la difesa del proprio Padrone: basti osservare, da un lato, la ignobile campagna dei giornali e delle tv di proprietà del Presidente del Consiglio, che ogni giorno martellano sulla follia dei giudici, sui loro (presunti) privilegi, sul loro (altrettanto presunto) potere incontrollato, e dall’altro, le mortificanti esternazioni di figuri, parlamentari che offendono la propria dignità costituzionale, che speculano, perfino, sulla morte di una ragazza per colpire i magistrati. Si può, ancora, osservare un modo (apparentemente) più elegante di colpire la magistratura: strumentalizzando casi, pur gravi, di malagiustizia (non ultimo il caso Tortora) per giungere a sgangherate conclusioni in spregio alla logica giuridica, che è tipico di chi poco o nulla conosce delle leggi. Soltanto partendo da queste considerazioni si può commentare una riforma che di epocale ha soltanto la ferita inferta allo Stato di Diritto. Dunque, si inizia con la separazione delle carriere: attualmente il pubblico ministero ed il giudice originano dal medesimo concorso e possono svolgere ora la funzione requirente ora quella giudicante. Con la riforma non avranno più nulla in comune: dipenderanno da due Csm diversi ed il pubblico ministero, di fatto, diventerà una sorta di “avvocato dell’accusa”, così, a detta dei soloni della maggioranza, a rendere finalmente pari l’accusa e la difesa. Ma l’effetto non sarà questo: ebbene, oggi, la circostanza che il pubblico ministero abbia la medesima formazione del giudice non soltanto rende lo stesso impregnato di una cultura giuridica completa (e non soltanto inquisitoria), ma soprattutto fa sì che lo stesso pubblico ministero non abbia quale obiettivo la condanna dell’imputato ma l’accertamento della verità; egli, infatti, ha l’obbligo di introdurre nel dibattimento anche gli eventuali elementi “a discarico” dell’imputato, fino eventualmente a chiederne il proscioglimento ovvero l’assoluzione. Questa peculiarità è la più profonda garanzia di un giusto processo, e, di fatto, il discrimine fra la figura del pm e quella dell’avvocato difensore che non ha, di certo, l’obbligo di introdurre nel dibattimento gli elementi “a carico” del proprio assistito: accusa e difesa devono, certo, avere pari condizioni (e le hanno se si avesse la decenza di conoscere il codice di procedura penale, con l’introduzione non soltanto delle indagini difensive ma perfino con il mutamento della formazione della prova che, oggi, avviene in dibattimento nel contraddittorio delle parti) ma non possono avere la medesima caratura funzionale, considerato che il pubblico ministero rappresenta l’interesse dello Stato ed il difensore l’interesse di una parte privata. In ogni caso, questa riforma, il cui obiettivo è propagandare la “mortificazione”del pm, sortirà l’effetto contrario: renderà, infatti, il pubblico ministero una sorta di Torquemada; egli, infatti, non appartenendo più alla stessa magistratura del giudice, ma essendo divenuto una sorta di super poliziotto, non avrà più come obiettivo quello di accertare la verità dei fatti ed il fine di Giustizia, bensì la mera condanna dell’imputato, così come, specularmente, l’avvocato ha quale fine l’assoluzione dello stesso. In definitiva, un controsenso rispetto al fine auspicato dal Governo. Un effetto lo sortisce, però: pone fine al principio dell’indipendenza (anche) del pm da ogni altro potere, asservendolo, di fatto, alle previsioni legislative del Parlamento, con tanti saluti a Montesquieu. Ma la cosiddetta riforma epocale riguarda anche l’ obbligatorietà dell’azione penale. La Costituzione prescrive, all’articolo 112, che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale: significa che il pm deve perseguire tutti i reati di cui abbia notizia. Questa, che può apparire una banale enunciazione, in realtà, è la più profonda garanzia del dettato costituzionale della eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla Legge: infatti, nello stesso momento in cui ad essere perseguiti sono tutti i reati si evita che, nel perseguirne appunto soltanto alcuni, si possano operare delle scelte che escludano o comprendano alcuni settori della società (si pensi a ciò che accadrebbe se si scegliesse di perseguire i furti con destrezza anziché i reati contro la pubblica amministrazione: si opererebbe una distorsione a favore degli alti funzionari dello Stato a scapito dei comuni cittadini). Con la riforma “epocale” sarà il Ministro della Giustizia, cioè il potere esecutivo, a determinare, anno per anno, quali siano le priorità: che saranno determinate, senza dubbio alcuno, sulla base della convenienza e cioè della richiesta elettorale. Questa costruzione sistemica produrrà almeno due conseguenze: anzitutto, consegnerà la Giustizia agli umori del popolo (un eclatante omicidio: si perseguano dapprima gli omicidi; crisi internazionali: si persegua, lo vuole l’elettorato, il reato di immigrazione clandestina) in sfregio alla conquista del moderno Stato di Diritto; quindi, come conseguenza, si perseguiranno quei reati (o quei soggetti?) che, all’occhio dell’opinione pubblica, sembrano più pericolosi. Ma attenzione: siamo proprio sicuri che tra i furti in appartamento (circostanza assai sentita nel nord-est) e la corruzione i primi, nonostante il maggiore allarme mediatico, siano più incidenti sulla tenuta democratica di un Paese? Ed un omicidio, per quanto eclatante, è davvero più pericoloso, per una Democrazia, di quanto non lo siano i reati di estorsione e riciclaggio, di sicuro meno avvertiti dal cittadino, ma esiziali per la società? In definitiva: non è affatto detto, anzi, che ciò che è più avvertito dal cittadino come pericoloso in realtà lo sia davvero o più di altro, ed un sistema giudiziario che abdica dalla valutazione di ciò che è necessario in favore della Politica e di ciò che è conveniente è destinato a far regredire il Paese ad uno stato di imbarbarimento civile. E veniamo alla responsabilità civile dei magistrati: ad oggi, oltre ai procedimenti disciplinari dinanzi al Csm (che conducono fino all’espulsione dalla magistratura) è garantita ad ogni cittadino la possibilità di ricorrere contro lo Stato, il quale, poi, si rivale sul magistrato, nel caso in cui lo stesso abbia agito con dolo e colpa grave. Chi vuole di più, dunque, non chiede Giustizia, ma vendetta e intimidazione, ed il perché è presto spiegato: oltrepassare il limite del dolo e della colpa grave significa valutare, temo, il merito delle decisioni giurisdizionali, sull’onda di una mortificante ignoranza che non fa comprendere come il diverso giudizio (possibile) nei vari gradi del processo non implichi un errore ma esclusivamente una valutazione diversa dei fatti, che è presidio di garanzia oltre che fisiologia processuale. Inoltre, proprio per la sua natura, il magistrato non può essere assimilato ai dipendenti della Pubblica Amministrazione i quali hanno, con essa, un vero e proprio rapporto organico: i magistrati, sebbene, formalmente, dipendenti della Amministrazione pubblica non hanno, né potrebbero avere, un rapporto di soggezione nei confronti di quest’ultima proprio per la loro terzietà ed indipendenza ed è per tale ragione che una responsabilità diretta, come per gli altri dipendenti (si legga l'art. 28 Costituzione), appare, proprio in diritto, aberrante. Oltretutto, lascio a chi legge, la valutazione circa il potere intimidatorio che (spesso) il potente di turno potrebbe esercitare su un magistrato. Per ultimo: se un cittadino citasse in giudizio un magistrato, questi diventerebbe incompatibile con il processo, con il rischio di una proliferazione di citazioni strumentali volte all’azzeramento del dibattimento. In definitiva, questa riforma non incide sulla Giustizia ma sulla magistratura, punendola: altro non è che il tentativo, continuo, di celare, distorcere, mistificare, la sola vera emergenza, quella, cioè, di un Presidente del Consiglio oggi alle prese con uno scandalo, l’ennesimo, che ovunque nel mondo lo avrebbe già indotto alle dimissioni. Non esiste alcuno scontro fra potere politico e potere giudiziario: esiste l’aggressione ( e dura da 15 anni) di una parte politica, stretta intorno agli interessi economici e giudiziari del proprio Padrone, nei confronti di chi esercita il proprio dovere costituzionale, la magistratura. Non c'entra il garantismo: si tratta, invero, di impunità, pretesa da una cerchia di proseliti scelti in base alle proprie capacità organizzative di festini a luci rosse ovvero composta da inquisiti ed imputati di gravissimi reati. Tutto ciò accade mentre, nel mondo civile, un ministro (quello tedesco degli Esteri) si dimette per l’accusa di aver copiato la tesi di dottorato, ed un altro ministro (giapponese) lascia l’incarico per dei contributi non corrisposti alla propria domestica: avviene ciò perché i loro partiti non permettono che il loro buon nome venga infangato da storie simili ed anche perché i cittadini pretendono la probità di chi li governa. In Italia, invece, si assiste, sgomenti e sviliti, alle dichiarazioni di dirigenti, di ogni latitudine, del Pdl, i quali ripetono che a loro non importano i fatti oggetto di contestazione penale a carico del proprio Leader, derubricando il reato a fatto privato: questi signori, con ogni evidenza, non soltanto ignorano il dettato costituzionale (art. 54) ma soprattutto contribuiscono a quello sgretolamento, costante, dell'Etica pubblica e dello Stato di Diritto.
Valerio Vartolo