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25/03/2012 17:38:29

La morte di Gesù (I Parte)

E’ necessario, perciò, analizzare il senso e il significato della passione e della morte di Gesù. Perché Gesù annunciò la sua morte? E cosa vuol dire questo per noi? Quali furono i motivi per i quali Gesù arrivò a concludere la sua vita come di fatto si concluse? Che senso ha per i cristiani la morte di Gesù? I vangeli sinottici dicono che Gesù annunciò tre volte la sua morte (Mc 8,31; 9,31; 10,33-34). Pertanto, secondo i vangeli Gesù sapeva in anticipo quel che gli stava per succedere. Però, a questo punto, si pone un problema: Gesù sapeva effettivamente tutto questo in anticipo e con tanta precisione? O non sarà, piuttosto, che i cristiani, sapendo tutto quel che era accaduto, dopo la morte e resurrezione di Gesù posero in bocca dello stesso Gesù quel che stava per succedergli, al fine di elogiare la figura del Maestro? Gesù era un uomo come gli altri. In tutto uguale agli altri uomini, fuorché nel peccato. Pertanto, Gesù aveva le limitazioni proprie della condizione umana: e una delle limitazioni è non sapere in anticipo quello che succederà nel futuro. Di conseguenza, ha del tutto senso la domanda posta in precedenza: “Gesù conosceva realmente la fine che lo aspettava?” Leggendo i vangeli, vi si avverte una cosa molto chiara: il corso esteriore del suo ministero dovette costringere Gesù a mettere in conto una morte violenta. Sarebbe stato un ingenuo se non avesse avvertito che questa, più che una probabilità, era una fine irrimediabile. In realtà, se Gesù era un uomo mediamente intelligente e sensibile, poteva prevedere con sufficiente sicurezza la possibilità della sua morte violenta. Tutti i dati coincidono con la predizione: da un lato la testimonianza dei profeti dell’Antico Testamento, la stessa morte del Battista, la crescente violenza delle autorità con le quali si scontrò, che in ripetute occasioni cercarono di aggredirlo e di catturarlo; dall’altro la riflessione veterotestamentaria sul giusto oppresso e sul servo sofferente, che era tanto viva nel popolo, soprattutto dal tempo dei Maccabei. Tutti questi erano dati coincidenti, che venivano a confermare il destino di morte che attendeva Gesù. La sua condotta fu in tal modo provocatrice, che diverse volte egli si pose al margine della legge, e di certo di una legge la cui violazione era punita con la pena di morte. Merita speciale attenzione la violazione del sabato (abbiamo numerosi esempi di Gesù che infrange il sabato, giorno, fra l’altro, da lui quasi sempre prescelto per guarire gli infermi), ma soprattutto il gesto di cacciare i mercanti dal Tempio (Mc 11,15-16). Senza alcun dubbio, questo fatto fu visto come il più grave che egli compì contro le istituzioni giudaiche. Di fatto, a ciò si ridusse l’accusa definitiva che mossero contro di lui nel Sinedrio (Mc 14,58), così come quello che gli rinfacciarono quando stava sulla croce (Mc 15,29-30). E’ evidente che Gesù, compiendo il gesto simbolico del Tempio, si stava giocando la vita. Pertanto, la cosa è chiara: Gesù aveva perso il diritto alla vita, ed era cosciente del pericolo cui andava incontro: si vedeva costantemente minacciato, di modo che di continuo doveva aver presente che la sua morte sarebbe stata una morte violenta. Fino a questo punto giunse la condotta di Gesù. Da qui il rischio a cui mise la sua vita. Contrariamente a quel che alcuni immaginano, la predicazione e l’attività di Gesù in Galilea non si conclusero con un successo, ma piuttosto con un fallimento, per lo meno nel senso che il suo messaggio non fu accettato. C’è infatti una parola dello stesso Gesù che può considerarsi indicativa in questo senso: “E beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,6; Lc 7,23). Ciò fa supporre che c’era gente che si scandalizzava di Gesù, di quel che faceva e diceva. Il che non deve sorprendere. L’amicizia di Gesù verso pubblicani, peccatori e gente di cattiva fama doveva essere una cosa scandalosa per quella società. E soprattutto, le ripetute violazioni della legge dovevano fare di Gesù un soggetto sospetto sotto molti punti di vista. Perciò, intorno alla persona e all’opera di Gesù sorse una domanda tremenda: la domanda se Gesù portasse la salvezza o piuttosto avesse un demonio dentro. Ecco perché ci furono intere città (Corazin, Cafarnao, Betsaida) che respinsero il messaggio di Gesù, come si vede dal lamento che lo stesso Gesù levò contro quelle città (Lc 10,13-15; Mt 11,20-24). Ed ecco perché lo stesso Gesù arrivò a confessare che nessun profeta è accettato nella sua terra (Mc 6,4; Mt 15,37; Lc 4,24; Gv 4,44). Inoltre, sappiamo che le cose giunsero a mettersi in maniera tale che un giorno lo stesso Gesù fece questa domanda ai suoi discepoli: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Segnale inequivocabile del fatto che anche i seguaci a lui più vicini ebbero la tentazione di abbandonarlo definitivamente. Cosa vuol dire tutto questo? La risposta appare chiara: durante il ministero pubblico di Gesù non tutto fu un successo popolare. Piuttosto c’è da dire che lì si produssero conflitti e scontri, di modo che gradualmente le grandi masse fuggirono abbandonando Gesù, fino al punto che anche i suoi più intimi discepoli arrivarono ad avere la tentazione di abbandonare il cammino intrapreso insieme al maestro. La passione e la morte di Gesù furono il risultato del conflitto che provocò la sua vita. Questo conflitto si accentra sulla sua relazione con la gente in generale. Però, soprattutto, si rende manifesto nel suo scontro con i dirigenti e le autorità. L’evangelo di Marco racconta che, appena Gesù infranse il sabato per la seconda volta, i farisei e quelli del partito di Erode si misero a progettare piani per vedere come potevano farlo fuori (Mc 3,6). Inoltre, sappiamo che la polizia di Erode andava cercando Gesù “per ucciderlo” (Lc 13,31). Pertanto le cose si misero abbastanza male per Gesù quasi sin dal primo momento. Ma il peggio è che questa tensione, invece di diminuire, andava aumentando. Un giorno Gesù domandò chiaramente ai dirigenti: “Perché cercate di uccidermi?” (Gv 7,19) E sebbene quelli rispondessero che era pazzo e che non cercavano di ucciderlo (Gv 7,20), il fatto è che qualche tempo dopo per poco non lo arrestarono (Gv 7,44) e in un altro momento mancò poco che non lo uccidessero lapidandolo (Gv 8,59), cosa che tornò a ripetersi poco dopo (Gv 10,31), di modo che egli riuscì sfuggire a pene crudeli rischiando la vita (Gv 10,39). Di conseguenza, è chiaro che la vita di Gesù si vedeva ogni giorno sempre più minacciata, sempre più in pericolo. E se non lo uccisero prima è perché comunque una parte del popolo stava con lui, e i dirigenti non volevano una sollevazione popolare (Mc 11,18; 12,12; 14,2; Lc 20,19; 22,2). Stando così le cose, ciò che più impressiona, in tutta questa faccenda, è che Gesù si dirige nella capitale, Gerusalemme, alquanto cosciente di quel che gli sarebbe accaduto, e lì si mette a fare le denunce più forti che si potevano immaginare contro le autorità centrali. Dice loro che il Tempio è un covo di banditi, gli rinfaccia che cercano soltanto il proprio profitto (Mt 23, 5-7) e che dissipano i beni dei poveri raccontando che pregano molto (Mc 12,40). Le chiama in pubblico assassini e malvagi (Mt 21, 33-45) e annuncia loro che Dio gli toglierà tutti i privilegi (Mt 21,43). La condanna e la morte di Gesù furono dunque il risultato della sua vita. A volte si dice che Gesù morì in croce perché questa era la volontà del Padre, perché Dio aveva bisogno di essere placato nella sua ira contro i peccatori mediante il sangue di suo figlio. E’ vero che frasi di questo tipo possono avere un loro senso. Però si deve andare molto cauti con queste affermazioni. Perché facilmente possiamo dare un’immagine di Dio che risulta inaccettabile e perfino blasfema. Perché, in realtà, cos’è che Dio voleva? Dio non poteva volere la sofferenza e la morte di suo figlio. Nessun padre vuole questo. Quel che Dio voleva è che Gesù si comportasse come di fatto si comportò. Anche se ciò gli avrebbe provocato il conflitto e la morte. E Gesù fu fedele alla volontà del Padre attraverso quella che può ben definirsi teologia degli emarginati. Nella società del tempo di Gesù gli emarginati propriamente tali erano gli emarginati a causa della religione. A questa categoria di persone appartenevano molti cittadini: quelli che non avevano un’origine legittima, quali erano i figli illegittimi dei sacerdoti, i pagani convertiti al giudaismo, gli schiavi, i figli di padre sconosciuto, gli esposti, quelli che svolgevano i lavori più umili, ma specialmente si consideravano impuri, e pertanto emarginati, i “peccatori”, prostitute e pubblicani, e coloro che soffrivano di certe infermità, soprattutto i lebbrosi; inoltre erano anche fortemente emarginati i samaritani e i pagani in generale. I poveri non erano emarginati religiosi, però lo erano dal punto di vista sociale. L’atteggiamento di Gesù nei confronti degli emarginati contiene una profonda teologia. In effetti, con le sue azioni salvifiche in loro favore, Gesù rivela come agisce Dio e come è Dio, nel cui regno i poveri e i disgraziati della terra sono i privilegiati. Il fatto di sedersi a mensa con i peccatori o di curare gli infermi ha il valore di una nuova rivelazione di Dio. Da ciò si comprende che la morte di Gesù non è il risultato di una decisione del Padre (cosa spaventosa!), ma la conseguenza di un modo di vivere, la conseguenza del suo ministero e della sua libertà; in definitiva, il risultato di un comportamento di impegno incondizionato a favore dell’uomo. Come si è detto molto bene, Dio non voleva la morte di Gesù. Dio non è un essere vendicativo che esige una vittima per il peccato dell’uomo, né un padre spietato che condanna il proprio figlio, né una divinità fatale che stabilisce una legge storica destinata a compiersi inesorabilmente e che porta il cristo a sottomettersi al suo destino. Nessuna di queste presentazioni di Dio è compatibile con l’immagine che Gesù ci offre del Padre e con il significato che lo stesso Gesù dà alla sua morte. Dio non desidera la passione e la morte di Gesù, ma, al contrario, che egli cerchi che il popolo si converta e che ascolti il suo messaggio. Dio non vuole questo finale, però lo accetta e lo assume come risposta dell’uomo all’offerta che Egli fa nel suo figlio. In conclusione, si può dire che Gesù sapeva perfettamente che la sua maniera di parlare e di agire contro i poteri oppressori doveva costargli molto caro. E per di più, egli sapeva che tutto questo lo avrebbe portato fino alla morte e al fallimento. Tuttavia non retrocedette di un passo. E così finì la sua vita. Come doveva finire la vita di un uomo che adottava un simile comportamento. Evidentemente, questo vuol dire che Gesù fu il difensore più deciso della libertà che mai è potuto esistere. La libertà di Gesù, espressione più forte della sua straordinaria personalità, e il suo impegno nella più totale solidarietà con gli emarginati, hanno la loro origine nella profonda religiosità di Gesù, nella profonda esperienza di Dio che lui visse. Per lui Dio era l’unico assoluto. Pertanto, tutto il resto era relativo. Da qui il senso della sua libertà. L’intimità tra Gesù e il Padre era totale. Ma questa intimità non era un mero sentimento. Era un’intimità affettiva che si traduceva in fatti. Concretamente, si traduceva nella fedeltà più assoluta (cfr. Gv 4,34; 5,30; 6,38; Lc 22,42; Mt 26,42). Per questo egli si comportò tanto sovranamente libero di fronte alle istituzioni, sia civili che religiose. Perché in questo egli vedeva il disegno del Padre del cielo. Però in tutto questo c’è qualcosa di molto più importante. Perché non si tratta solamente del fatto che Gesù difese la libertà nei confronti delle istituzioni e dei poteri di quel tempo. Si tratta soprattutto del fatto che, comportandosi in quella maniera, Gesù si mostrò sovranamente libero di fronte alla sua propria morte. Cioè, dinanzi al pericolo che sopraggiungeva, Gesù non retrocedette né vacillò un istante; si mantenne fermo fino alla fine, fino a sopportare la persecuzione, la tortura e la morte. Ma qui si presenta una questione più delicata e più profonda, che non dobbiamo dimenticare. Gesù morì indifeso e abbandonato da tutti: dal suo popolo, dai suoi discepoli e persino dai suoi più intimi seguaci. Tuttavia non è questa la cosa più grave. L’evangelo dice che Gesù morì gridando: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34) Quale che sia la spiegazione che si dà a queste parole misteriose, una cosa è assolutamente chiara. Nella sua passione e nella sua morte Gesù si sentì abbandonato da Dio stesso. Cioè, morì senza la ricompensa del conforto divino. Di conseguenza, la sua libertà fu totale. Perché totale fu il suo abbandono. La sua morte fu l’atto più sovranamente libero che può compiere un uomo, e questo perché Gesù aveva compreso che il valore supremo della vita non è la sottomissione, ma la libertà liberatrice che pone al di sopra di tutto il bene dell’uomo e la sua liberazione integrale.   Violairis - 25 marzo 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com