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14/12/2019 06:00:00

Riflessioni a margine del trentennale della morte di Leonardo Sciascia

di Marcello Benfante


Temo ci sia un inquietante equivoco di fondo nelle ridondanti celebrazioni per il trentennale della morte di Leonardo Sciascia.

Il sospetto di un fraintendimento si è fatto strada nella mia percezione (e spero di altri) un po’ alla volta in mezzo a una selva di dichiarazioni talora anche condivisibili e sacrosante, che però stridevano coi fatti, con le persone, con le circostanze.

Come se le parole avessero orwellianamente mutato il loro senso originario e assunto, combinandosi in discorsi e manifestazioni, valenze divergenti da quelle originarie.

“Quelli che la pensano come noi appunto sono quelli che non la pensano come noi”, scriveva Leonardo Sciascia in «Nero su nero».

Trent’anni, a conti fatti, sono una distanza sufficiente pure a smorzare ogni polemica, a disattivare ogni dissenso, a disarmare ogni conflitto. Una distanza di sicurezza, di impunità. E in qualche modo di un oblio che si nasconde tra le pieghe di un’esibita rimembranza citatoria e retorica.

Una distanza dalla quale si possono perfino concedere ai morti le loro remote ragioni nella certezza che anch’esse sono divenute lettera morta e, trasformandosi da laica profezia in cronaca e storia, hanno perso il loro carattere scandaloso e provocatorio.

Una serie di iniziative editoriali, accademiche, giornalistiche (anche doverose e a volte perfino encomiabili) sta infatti delineando sempre più chiaramente una sorta di ridimensionamento e di ricollocazione della figura intellettuale e autorale di Sciascia.

Si tratta di un tentativo, più o meno consapevole a seconda dei casi, di assimilare Sciascia a un panorama generico del secondo Novecento letterario, dopo avere appiattito l’uno e l’altro, e in qualche modo di omologarlo, e precisamente nell’accezione che il termine ha assunto con Pasolini.

Un tentativo, insomma, di rimodulare Sciascia, di bonificare il suo campo minato affinché non vi si potessero verificare esplosioni dirompenti; di appianarlo, livellarlo, smussarlo, affinché nessuna delle sue asperità potesse ferire o risultare un ostacolo nel processo di archiviazione enciclopedica.

La diversità di Sciascia è stata in tal modo inglobata, metabolizzata, annullata tra la soddisfazione pressoché generale. Almeno nelle intenzioni, destinate comunque all’insuccesso nel lungo periodo, ché il corpus dell’opera sciasciana resta tuttavia a testimoniare il disguido con la sua inequivocabile trasparenza.

Reso accettabile (per quanto possibile) tanto all’industria culturale che all’establishment universitario e quasi riconvertito al ruolo postumo di autorevole garante delle loro derive più commerciali e rasserenanti, Sciascia appare in questa kermesse commemorativa (in cui naturalmente non sono mancate eccezioni illuminanti) come un Sansone dal barbiere o un Anteo sospeso a mezz’aria, privato della sua forza e della sua carica innovativa e anticonformista.

La sua stessa eresia, esplicitamente dichiarata e sventolata come un vessillo, sembra così ridotta all’ortodossia italianissima di una innocua equidistanza dai poteri, dagli schieramenti, dai valori stessi (il che è davvero un paradosso inaccettabile per uno scrittore moralista, sulla scia di Pascal e di Montaigne, come Sciascia).

Ciò che rimane di Sciascia, al netto di un tributo quasi unanime, dopo questa equivoca traslazione, è una singolarità resa inoffensiva, una problematicità disinnescata, una conflittualità attutita e riconciliata.

È una complessa strategia di banalizzazione, quella messa in atto nei confronti di Sciascia. Come scrittore troppo spesso lo si intruppa sbrigativamente tra i giallisti (sebbene sui generis), facendone una specie di precursore di Camilleri e di certo etnoturismo pubblicitario. Come opinionista lo si pone in una rassicurante posizione intermedia fra destra a sinistra, insediandolo arbitrariamente in un centro ideale e quasi super partes della dialettica politica. Come rappresentante di un’atavica sicilitudine (ancorché distorta e malintesa) lo si confina nell’ambito di una dimensione regionale, isolata e marginale, dimenticando che forse fu l’ultimo intellettuale europeo ad avere con la sola forza del suo pensiero e della sua scrittura un peso e un’incidenza internazionali.

Sicché il suo antagonismo estremo e la sua diversità irriducibile risultano infine depotenziati e snaturati.

A ciascuno il suo Sciascia, si dice, con una facile battuta. Come se fosse possibile farne un Don Chisciotte buono per tutti gli usi. E ciascuno vorrebbe accaparrarselo esclusivamente per sé e contro gli altri, con appropriazioni indebite (e simmetriche e arbitrarie esclusioni) o alquanto discutibili rivendicazioni di campanile e di parrocchia, di cattedra o di fazione.

È una clamorosa, ancorché subdola e strisciante, operazione di depistaggio, di stravolgimento, di mistificazione, fatta di luoghi comuni pittoreschi e ambigue approssimazioni. O, nei casi peggiori, di tendenziose revisioni, di qui pro quo recidivi e maliziosi, come le annose e sterili polemiche sulla sicilutudine, l’irredimibilità, la presunta mafiologia, i professionisti dell’antimafia, il pessimismo e così via.

Polemiche alla cui base spesso c’è un’incomprensione e talora perfino un’ignoranza sostanziale dell’opera di Sciascia, che viene frequentemente e riduttivamente sussunta nei termini più generici e grossolani.

Bisognerebbe allora tornare a leggerlo, Sciascia. Rileggerlo (ripensando a quel suo delizioso saggetto borgesiano sul rileggere) possibilmente tutto, e in modo critico e storico. Con rispetto e attenzione per la sua parola, per il suo pensiero, per il testo e il contesto.

E quindi ritornare a Sciascia. Alla sua voce. All’attualità del suo magistero, pur senza pedissequi e vuoti omaggi. Ancora e ancora. Ovviamente per superarlo. Andare oltre o perfino altrove. Magari salendo sulle sue spalle per essere più lungimiranti e sembrare un po’ più alti. O soltanto un po’ meno miopi e rachitici.