di Lavinia Spalanca, con le fotografie di Angelo Pitrone
«Cummattia Pillitteri, / lassata ri so’ patri, cu’ ll’arena / ri Spagnola… ». Era il 2000, avevo vent’anni e una vorace curiosità. Spulciavo la biblioteca paterna alla ricerca di qualche primizia, che prontamente avrei trasferito nelle scansie della mia stanza (abitudine, quella d’impossessarmi dei libri altrui, che purtroppo mi è rimasta).
Quell’inciso mi colpì, come un giro di chitarra … lassata ri so’ patri … a spezzare la cantabilità del verso, insinuando un’inaspettata nota narrativa. Capii che avevo dinanzi un poeta, che ignoravo ma che intuivo grande, grandissimo. La stessa folgorazione che mi destò, dieci anni prima, la lettura di un frammento di Sbarbaro: «e tutto è quello / che è, soltanto quel che è». Come si può scrivere un verso simile, pensai, come si può essere così arditi? Insomma, l’effetto fu analogo, a conferma che la vera poesia, come dice Montale, è come un quadro di cui s’ignori il proprietario…
Decisi, con la tenacia della dilettante, che non soltanto avrei letto il libretto – una delle tante plaquettes che De Vita soleva donare agli amici – ma che avrei scritto una recensione, perché a vent’anni, confinatami in un’altera solitudine, quella era l’unica via per comunicare col mondo. Ricordo ancora la telefonata di mio padre: «Le dispiacerebbe se mia figlia pubblicasse una recensione al suo libro, su “Malgrado tutto”?». E così fu. Nella rivista battezzata da Sciascia, nel paese delle memorie familiari e letterarie. Quell’articoletto di certo non lo rimpiango, acerbo come un tentativo mal riuscito, ma forse avevo inconsciamente stabilito un legame fra quel poeta a me ignoto e lo scrittore di Racalmuto. Ad un decennio di distanza, nel 2010, sarei entrata a far parte della Fondazione Sciascia, la stessa che ha tuttora fra i suoi componenti, su precisa volontà dello scrittore, quell’autore che mi aveva così colpito. Coincidenze? Senz’altro, o il segno di un cammino comune. Del resto, leggendo L’arena ri Spagnola (ricordo ancora l’incisione lunare di Vincenzo Piazza) e poi tutto quello che trovai in casa presa dalla smania di conoscerlo, avevo sentito un’aria di famiglia. La famiglia dei poeti, naturalmente: lo Sbarbaro naturalista, il Montale degli Ossi di seppia, lo Sciascia lirico. Quei paesaggi assolati, quei muri arroventati, quel biancore abbacinante della mia terra che ritrovavo a specchio nella Liguria montaliana, adesso li rivedevo nella Sicilia di De Vita, nelle sue contrade desolate, tra stocchi d’erbaspada e lucertole che sgusciano tra i ciglioni. Geografie aspre, distoniche, novecentesche, nulla a che vedere con elegiaci rimpianti, tutta un’altra storia, quell’arido vero che Leopardi ci aveva per primo insegnato ad amare.
Sono passati vent’anni da quel lontano 2000, un ventennio in compagnia della sua poesia, scandito da più solidi - si spera - scritti che gli ho dedicato e persino da un progetto fotografico, il poemetto Pisci affidato all’obiettivo del mio amico pittore Pino Manzella. Nel frattempo ho conosciuto il poeta, e sua moglie Giovanna, nella loro casa di campagna, a Cutusìo. Una casa piena di gatti, stesi pigramente al sole, o che accompagnano il visitatore lungo le terrazze, rivolte al bagliore luccicante delle saline. Tutto è poesia in De Vita, nella piena consonanza fra l’uomo e l’artista, l’individuo e la terra, la vita e la letteratura. Nello studio, oltre ai libri, alle carte e al computer, una foto di Scianna che racchiude, come il Tondo Doni, il nucleo familiare: Nino, Giovanna e i loro due figli, una Sagrada família dalla sobria intimità. Ma quanta inquietudine, dietro questa discrezione! La discrezione del siciliano, che soffre in silenzio, che si macera per un verso, che tormenta la lingua fino a non poterne più, e a fine giornata accarezza la mano per compassione: «’A manu accarizzava all’atra manu, / trasia rintra ê capiddi // e, piatusa, / s’arricugghia nnô cozzu».
Non c’è niente di rassicurante nella poesia di De Vita. Nessuna illusoria felicità, nessun idillio della natura, ma un’eterna lotta per la sopravvivenza, un eterno duello fra la vita e la morte. Anzi, per dirla con le incisive parole di Michelstaedter, un’osmosi: «Vita morte, / la vita nella morte. / Morte vita, / la morte nella vita». Senza il gusto decadente di un Vann’Antò, semmai l’asciutto antieroismo di un Salvo Basso, nella coscienza che il male di vivere lo vince soltanto la parola, che il groppo in gola - «’u chiuppu» - lo scioglie solamente la poesia. E allora scrivere, scrivere, scrivere, per neutralizzare la pena di esistere… ma se la scrittura stessa diventa un tormento? De Vita è tutto fuorché l’uomo pago che vive in sordina, nella quiete della sua dimora, ma è la perfetta incarnazione dell’artista inquieto e inappagato – e dunque dell’artista tout court - che si specchia negli altrui destini: la nevrotica solitudine di Antonio Castelli, il travaglio spirituale di Angelo Fiore. Diverso, invece, dall’istrionico Buttitta, per scelte ideologiche, poetiche, linguistiche… Il dialetto. Una lingua primigenia? O un mezzo d’espressione in un certo senso più raffinato della lingua, come diceva Pasolini? Il poeta delle Ceneri, altra mia passione, che succhia il latte del friulano materno (poeta félibre) per resistere all’omologazione. Quanta consegna di eticità, allora, nella scelta di scrivere in dialetto. Certo, sono lontanissimi i tempi del «poeta in piazza», del cantastorie che fa piangere nelle osterie bagheresi narrando di «Turi Scordu, surfararu / abitanti a Mazzarinu». Ma l’impegno, nei nostri tempi di assoluto disimpegno, non è forse lo scavo nella lingua? Il tentativo di salvare le parole, di sottrarle alla precarietà che ci devasta?
De Vita ha le idee chiare. La poesia è imprevedibile, le parole sono volubili, ma la messa in scena, il congegno narrativo sono implacabili. La struttura poematica, la proliferazione dei punti di vista, gli squarci metaletterari sono quelli di chi padroneggia la materia, la plasma a suo piacimento, la lavora di cesello; ma al contempo lasciando al lettore una traccia d’incompiuto, di sospeso e di misterioso. L’ironia tutta siciliana gli impedisce, del resto, vani compiacimenti, gli detta scabre verità, come quando, a chiudere il suo teatro della memoria, si rivolge così all’interlocutore: «T’abbàstanu i palori. // E ppuru m’abbisògnanu, / o Berengariu, i fatti, / cci rissi».