Se dobbiamo avere paura di 59 mafiosi che escono di galera, allora la mafia ha vinto...

 Dicevo ieri che, alla fine della rituale e noiosa visita della Commissione antimafia dell'Ars a Trapani, questa volta,  il presidente Claudio Fava ha aggiunto un dato: c’è da stare attenti, ci ha detto, perché ben 59 mafiosi stanno per essere scarcerati in provincia di Trapani.

Qui siamo già a qualcosa di serio e nuovo. Tra l’altro solo l’anno scorso erano 200 i boss pronti ad essere scarcerati a Trapani alla vigilia delle elezioni amministrative , secondo un giornalista che fece un titolo eclatante sul tema. La notizia era falsa, come abbiamo raccontato. Nessuno però, a parte noi, l’ha smentita. 
Fava, che è fonte autorevole, parla di 59 mafiosi pronti a uscire di galera, perché hanno scontato la pena. 
Ma dove? E chi sono? Uno lo conosciamo, è Salvatore Messina Denaro, il fratello di Matteo. Ed è stata questa testata a dare per prima la notizia.
Anche qui, per noi, nulla di nuovo.

Ma poi, perché ci dovrebbe spaventare che Salvatore Messina Denaro e altri 59 escano di galera?
Primo, da cittadini dobbiamo credere alla Costituzione, e a quell'articolo della Costituzione che parla di "funzione rieducativa" della pena. Uno Stato che mi dice che devo avere paura di alcuni mafiosi che escono di galera, è uno Stato che ammette il suo fallimento. La pena non è servita a nulla.
Pena che tra l’altro non è l’ergastolo. C’è chi sconta otto anni per mafia, chi sei, chi quindici. Prima o poi uscire devono.

Ma in questo allarme di Fava c'è il segno di un doppio fallimento, della mafia, e dell'antimafia. Della mafia, perché il fatto che dobbiamo temere una banda di avanzi di galera - letteralmente, sono questi - dimostra ancora una volta come Cosa nostra sia ridotta ai minimi termini in quanto ad organizzazione (e riorganizzazione) e quindi si affida agli ex galeotti, che tornano a "mafiare" perché altro non sanno fare, come ci raccontano le ultime operazioni investigative. E infatti che succede, anche questo è uno schema che abbiamo raccontato: esce lo zio Cola - faccio un esempio - torna a fare estorsioni, perché solo quello sa fare, siccome ha le cimici pure nel sedere, lo prendono dopo sei mesi, lui con tutti i nipoti e i figliocci che ha coinvolto nell’affare. Ormai gli investigatori sono bravissimi: appena uno tenta di riorganizzare una cosca, lo beccano subito.

Ma in questo allarme di Fava, c'è anche il fallimento dell'antimafia, perché cambiano le stagioni, le maggioranze, le commissioni, ma noi da venti anni a questa parte, siamo fermi sempre ai soliti nomi, i soliti cognomi, le solite cose. Se Salvatore Messina Denaro esce, dopo 12 anni di galera, e dobbiamo avere paura di lui, vuol dire che ha vinto lui. Perché noi in questi 12 anni non abbiamo fatto un passo, un solo passo, per mettere finalmente la distanza tra noi e quelli come lui. E siamo ad un passo così dal prendere Matteo Messina Denaro, ad un passo così da debellare la mafia, ma non riusciamo a compiere questo benedetto ultimo miglio, e soprattutto, non riusciamo ad indagare su ciò che rimane sempre fuori dal racconto: tutta la rete di relazioni, connivenze, protezioni che rende la debole mafia di oggi ancora in grado di muovere affari importanti, una rete complessa, che non si può rubricare alla voce “massoneria” - è troppo semplicistico, tra poco Salvini lancerà il censimento dei massoni, me lo sento - ma che richiede impegno, studio, capacità di lettura del contesto. Se siamo sempre in giro, mica possiamo farlo. 

Claudio Fava è lo sceneggiatore del film "I Cento passi", quello che ha reso popolare la figura del giornalista e intellettuale Peppino Impastato, ucciso a Cinisi dalla mafia nel 1978. Impastato è oggi una delle figure più "abusate", nel santurario dell'antimafia. L'ultimo libro pubblicato su di lui è di Augusto Cavadi. Si chiama "Peppino Impastato, martire civile", ed è un libretto prezioso, come tutti le pubblicazioni di Cavadi, devo dire, perchè parlano di cose difficili come la mafia con parole chiare, argomentazioni solide, ottima scrittura, pazienza. E insomma, questo libro comincia con questa frase: "Anche se quasi coetanei, e iscritti alla stessa facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo, non ho mai conosciuto Peppino Impastato". In tempi in cui tutti si vantano di essere stati allievi di Borsellino, amici di Impastato, depositari dei segreti di Rostagno, la semplicità di Cavadi (prima del 1985, aggiunge, non sentirà parlare di lui...) è disarmante. E insomma, nel libro, ad un certo punto si cita un articolo di Ambrogio Cartosio del 2005, apparso sulla rivista Limes. Cartosio è stato anche sostituto procuratore a Trapani. E in questo testo dice delle cose importanti, attuali, che è giusto inserire qui, alla fine di questo lungo doppio articolo, se non vogliamo continuare a fare l'antimafia vendendo "pignate". Sono frasi che dovrebbero essere mandate giù a memoria, soprattutto oggi, soprattutto a Trapani:

"Si deve evitare di mitizzare troppo la mafia, di considerarla potente o invincibile. E' irritante, per chi ha speso anni della propria vita per contrastarla, sacrificando anche la propria libertà, sentir dire che nulla è stato fatto, o che nessun risultato è stato ottenuto, o che la mafia è più forte di prima. Non è vero. Da vent'anni a questa parte, centinaia di mafiosi vengono processati e condannati, molti scontano l'ergastolo (....). Inoltre, fino a non più di una dozzina di anni fa nelle forze dell'ordine e nella magistratura erano in pochi a combattere la mafia; oggi le persone impegnate su questo fronte sono un esercito. Non è nemmeno serio esagere le proporzioni delle associazioni mafiose, presentandole come autentiche dominatrici del mondo, o enunciare dati spropositati sui loro fatturati, parlando (non si sa bene sulla base di quali dati, di quali registri, bilanci o scritture contabili) di incassi di migliaia di miliardi, in una gara a chi stupisce di più sparando le cifre più alte. E' un atteggiamento superficiale e deleterio. Si pensi l'effetto che può avere l'enunciazione di questi dati su un ragazzo di Siculiana, cui si presentino le seguenti, reali prospettive: emigrare, rimanere, conducendo una vita di disoccupazione e di stenti; affiliarsi alla grande holding internazionale dal fatturato iperbolico". 


Giacomo Di Girolamo

Tp24.it (28/06/2018)