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30/03/2015 16:08:00

Il congresso del Pd a Marsala sul Jobs Act e la riforma del lavoro

Al convegno del Pd cui hanno partecipato, alla sala conferenze di San Pietro, i big regionali, provinciali e comunali del partito, era presente un folto pubblico. Il partito sembra essere il primo, come richiamo elettorale, in città. D'altra parte é d'uso salire sul carro del vincitore, e da qualche anno il Pd è ai primi posti nei risultati elettorali.
Nel convegno, che s'é fatto a poco più di un mese dalle prossime elezioni amministrative in città, s'é parlato della nuova legge del lavoro, che é la prima riforma, tra quelle consistenti promesse da Renzi, ad essere andata in porto. E' stata bene accolta da Confindustria, e nel primo bimestre di quest'anno ha fatto registrare circa diciassettemila nuovi contratti a tutela crescente. La legge ha modificato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che per decenni é stato un tabù da onorare, ciecamente. Se qualcuno pensava di renderlo più flessibile, si scatenava la canea degli oppositori, lavoratori, sindacati, ed anche lo stesso più grande partito della sinistra quando non é stato nella stanza dei bottoni.
La legge si può considerare una riforma, perché modifica il mercato del lavoro ingessato da procedure obsolete, non più al passo con i tempi. Al portato dei nuovi tempi, globalizzazione in testa, ci si può opporre, ma alla fine la spunta il nuovo, quando diventa area che cammina, vento della storia. Eppure, resta sempre la frangia di chi vorrebbe bloccare i tempi, come se l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, scritto nel 1970, fosse un valore eterno. C'é sempre una frangia di persone che si rifugia nel buon tempo andato. Ma é stato davvero buono l'art. 18, e doveva restare immodificato?
Nel 1970, quando fu approvato lo Statuto dei lavoratori, non c'era ancora Internet, non c'era ancora la moneta unica europea, il comunismo reale dell'URSS non era ancora crollato, la Cina non aveva spiccato il volo verso il posto di seconda potenza mondiale, le alleanze e i commerci internazionali venivano intessuti nel clima della guerra fredda. Le economie dei Paesi erano in notevole misura autarchiche. Si rivolgevano all'esterno nelle importazioni ed esportazioni, ma per incrementare, ciascun paese nel suo ambito, le attività nazionali. A distanza di 45 anni, il mondo é cambiato. La più grande industria italiana, la Fiat, per sopravvivere alla concorrenza internazionale, ha dovuto fare l'accordo con la Chrysler, ed é nata la Fca. Parte della sua produzione é stata trasferita negli Stati Uniti. Nei giorni scorsi Tronchetti Provera ha immesso capitale cinese maggioritario nella Pirelli, per poterle far sostenere l'aggressività delle altre industrie del settore. L'Alitalia, la nostra compagnia aerea di bandiera, ha ceduto il 49 per cento del suo valore azionario a una società araba.
Non si può più vivere nel vecchio santuario dell'industria italiana. Se Fiat, Pirelli e Alitalia non avessero fatto le operazioni di internazionalizzazione, sarebbero incorse in un inesorabile decadenza, con chiusure di settori e massicce perdite di posti di lavoro.
L'industria italiana, come la vorrebbero i sindacati, dovrebbe restare estranea alle esigenze del mercato e della concorrenza. Prima di tutto si dovrebbero salvaguardare i posti di lavoro, di chi il lavoro ce l'ha in quelle industrie. E lo Stato, per necessità, dovrebbe alimentare con nuove valanghe di soldi, o agevolazioni fiscali, che sono lo stesso, i buchi creati da una politica miope, che guarderebbe il proprio ombelico. Similmente, nel rapporto di lavoro la nuova flessibilità introdotta dal governo Renzi non piace ai sindacati. Due rappresentanti sindacali, della Cisl e della Cgil, nel convegno del Pd a San Pietro, hanno criticato che la nuova legge sul lavoro abbia reso più vulnerabile il lavoratore, come se il posto di lavoro fosse un valore assoluto indipendente dall'andamento dell'economia e dell'impresa che dà lavoro.
Solo se l'impresa prospera e si ingrandisce ci saranno nuovi posti di lavoro, e staranno meglio i dipendenti. Un'impresa costretta a operare non per il mercato, ma per la salvaguardia di chi il lavoro ce l'ha, crea danno a chi il lavoro non ce l'ha e lo cerca. E poiché lo Sato dovrà in questo caso intervenire per ripianare le perdite, si verificherà un danno alla collettività. Lo Stato sarebbe costretto a dissanguare con il prelievo fiscale la nazione, per sostenere industrie antieconomiche.
Tutto questo i sindacati non l'hanno capito. Che qualcuno glielo spieghi. Come pure gli ricordi che uno dei motivi per cui i capitali stranieri sono stati restii dall'investire in Italia é stato l'ingessato rapporto di lavoro, con le annesse strettoie sindacali, che finalmente é stato modificato.

Leonardo Agate
leonardoagate1@gmail.com