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23/03/2020 06:00:00

Dai cugini Salvo a Matteo Messina Denaro. Gli affari della cantina "Feudo Arancio"

Dalla mafia dei potenti esattori salemitani Nino e Ignazio Salvo a quella del boss Matteo Messina Denaro. Ci sarebbe questo collegamento e l'ombra del superlatitante di Castelvetrano negli affari di uno dei più grandi gruppi del settore vitivinicolo italiano, Mezzacorona, proprietario della cantina Feudo Arancio.

Nei giorni scorsi il gruppo industriale ha subito un sequestro di beni disposto dal gip del Tribunale di Trento, Marco La Ganga, ed eseguito dalla Guardia di Finanza, che ha visto mettere i sigilli a fabbricati e vigneti tra le province di Trento, Agrigento e Ragusa, su richiesta della locale Direzione distrettuale antimafia e in stretto coordinamento con la Procura nazionale antimafia. Il sequestro riguarda un patrimonio di 70 milioni di euro della cantina siciliana Feudo Arancio ed arriva al termine di un’inchiesta su una grande operazione di riciclaggio di Cosa nostra che sarebbe avvenuta fra il 2001 e il 2003.

Gli indagati - Fabio Rizzoli, ex amministratore delegato di Mezzacorona; Luca Rigotti, presidente del Consiglio di amministrazione; Gian Luigi Caradonna e Giuseppe Maragioglio, che gestivano le società proprietarie dei beni dei cugini Antonino e Ignazio Salvo, uomini d'onore di Salemi, iniziali proprietari dei vigneti al centro della vicenda. Il 2 e il 16 febbraio del 2001 - sostiene l'accusa - Rizzoli, Rigotti e Caradonna «ripuliscono» decine di fondi e fabbricati di Sambuca di Sicilia, paese dove comandava il boss Leo Sutera, insegnante a Palermo.

Come sarebbe avvenuta l’operazione di riciclaggio – Nel 2001 i beni di proprietà di Cosa nostra secondo l'accusa, vengono ceduti fittiziamente con assegni per 13 miliardi delle vecchie lire. Nel 2003 l'operazione viene fatta la stessa operazione per i terreni e i fabbricati di Acate (Ragusa). Per il gip La Ganga il gruppo Mezzacorona, avrebbe riciclato circa 21 milioni di euro della mafia di Salemi, che avrebbe continuato in questo modo a mantenere la proprietà dei beni attraverso dei prestanome.

Chi sono i prestanome e il racconto del boss Di Gati – Uno dei prestanome dell'operazione è Gianluigi Caradonna nipote e uomo di fiducia di Nino Salvo. L’altro è Giuseppe Maragioglio, suo uomo di fiducia e prestanome. Della vicenda del riciclaggio ha parlato l'ex boss di Agrigento Maurizio Di Gati. “I cugini Salvo - avevano un grosso feudo a Sambuca di Sicilia che poi è stato acquistato da imprenditori del Nord. A quel punto lo voleva gestire Leo Sutera, ma loro non erano propensi». «Ho saputo - aggiunge l'ex capo provincia di Cosa Nostra agrigentina - che furono organizzate alcune spedizioni, una serie di danneggiamenti per far capire alle aziende che dovevano sottomettersi alle esigenze dell'associazione». Ci fu insomma la classica «messa a posto», secondo la Procura di Trento, con l'inserimento di figure, nell'amministrazione e nella struttura organizzativa, decise dai boss.

Il coinvolgimento del boss Matteo Messina Denato - Nell’operazione a quel punto vennero coinvolti i due capi provincia interessati all’affare. Da una parte lo stesso boss, oggi collaboratore di giustizia Di Gati e dall'altra il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro che, nel 2002, era il rappresentante delle famiglie mafiose di Trapani. «Per quanto riguarda la provincia di sua competenza – ha detto Di Gati - Matteo Messina Denaro disse che potevano muoversi, ma che lui avrebbe voluto sapere l'esito dell'operazione. Ciò avvenne nel marzo-aprile 2002, in riferimento alla conclusione delle trattative con l'imprenditore ma l'operazione fu avviata nel 2001».

La vendita dopo la morte dei cugini Salvo - Secondo gli inquirenti, i beni sequestrati sarebbero stati messi in vendita dai prestanome dopo la morte dei precedenti proprietari, i cugini di Salemi, Nino e Ignazio Salvo, esattori e «uomini d'onore» del mandamento mafioso di Mazara del Vallo. Secondo gli uomini del gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata di Trento, gli indizi hanno portato a «gravi indizi di responsabilità anche a carico di soggetti del gruppo trentino che, con due operazioni contrattuali collegate tra loro, hanno acquisito beni immobili in Sicilia, inizialmente di proprietà dei Salvo e dopo la loro morte, sarebbero stati di fatto gestiti da altri due uomini di Cosa Nostra, con l’autorizzazione del boss latitante.

Leo Sutera fedelissimo di Messina Denaro - I beni, a quanto risultato dalle indagini, erano inizialmente di proprietà di «uomini d'onore» della famiglia di Salemi, e sono poi stati ceduti in gestione a prestanome, pur rimanendo - dicono gli investigatori - all'allora capo mandamento di Sambuca di Sicilia Leo Sutera, «'u prufissuri», (potete leggere qui) insegnante di educazione fisica e uno degli ultimi fedelissimi di Messina Denaro. Nell'indagine sono coinvolti anche un commercialista e un imprenditore, entrambi siciliani, quest'ultimo fornitore e socio di minoranza del gruppo trentino.

L’accusa per il Gruppo Mezzacorona - “I vertici del Gruppo scrivono gli inquirenti hanno erogato le ingenti somme all'organizzazione criminale Cosa Nostra, nell'ambito di una spregiudicata operazione commerciale, pur nella consapevolezza del comportamento di riciclaggio che stavano ponendo in essere, attesa la provenienza mafiosa dei beni e la necessità di attendere l’autorizzazione alla vendita del capomafia detenuto in carcere, soltanto perché allettati dalla possibilità di ottenere i terreni e gli edifici pertinenziali che avevano individuato come funzionali ai progetti di sviluppo del Gruppo”.

La difesa dei Mezzacorona – Con una nota il gruppo Mezzacorona respinge con forza gli addebiti e ribadisce la totale estraneità a collegamenti e attività mafiose in Sicilia. «Il gruppo Mezzacorona - si legge nella nota - ha sempre agito correttamente e seriamente nel proprio impegno imprenditoriale a tutela dei propri soci, azionisti e collaboratori e ha la certezza di poter dimostrare la propria totale estraneità rispetto ai fatti contestati». Il gruppo chiede «con la massima sollecitudine all'autorità giudiziaria che sia fatta nel più breve tempo possibile chiarezza sulla vicenda a servizio e a tutela del reddito e del lavoro dei propri 1.600 soci, dei 480 azionisti e dei 500 collaboratori».