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24/03/2020 17:15:00

Dalle zone rosse, diario dal disastro. La paura si impadronisce di noi

di Domenico Cacopardo

24 marzo 2020

Il mostro si avvicina: alla scomparsa di conoscenti si aggiungono quelle, sempre più frequenti, di persone amiche, coloro cioè con i quali era gradevole fermarsi a far due chiacchiere e prendere un caffè.

Scema il numero di coloro che sono abituato a sentire al telefono ogni giorno per commentare quanto sta accadendo o, magari, per parlare di Laura Imai Messina, l’italo-nipponica che ha di recente pubblicato «Quel che affidiamo al vento», storia di Itaru Sasaki, l’anziano pensionato che, dopo la morte dell’amato cugino, s’è procurato una vecchia cabina telefonica con apparecchio scollegato alla rete, e l’ha sistemata nel giardino di casa sua, sul fianco scosceso del Kijira-Yama, la Montagna della Balena. «Kaze no Denwa» -così viene chiamato il telefono- è la via frequentatissima per parlare a chi non c’è più. Sono infatti migliaia i giapponesi che raggiungono la casa di Sasaki per trovare il conforto di affidare al vento le parole che avrebbero detto a una persona amata.

Debbo dire, però, che l’amico cui ho letto qualche pagina di questa singolare opera, mi ha attaccato il telefono e non ha più risposto alle mie chiamate, preso forse da un improvviso rifiuto dell’argomento, giustificabile alla luce di ciò che stiamo vivendo: la superstizione è un’ubbìa cui nessuno crede, salvo che non ti si avvicini qualcosa che resuscita sentimenti ancestrali.

Ogni giorno sono e mi sento più solo. Vedo mia figlia o mia nipote dalla finestra, ci salutiamo con la mano in una sorta di rito che evoca quello degli addii: sono di una generazione nella quale si viaggiava solo in treno. Normalmente, per andare al Nord, partivamo da Messina, ma accadeva anche che prendessimo l’accelerato in uno dei luoghi che ho più amato, la deliziosa stazioncina di Letojanni con la sua minuscola villetta, una fontana e un paio di panche. In questa stazione aspettai, con mia madre, il treno che, il 22 gennaio 1943, portava gli scampati dal primo grande bombardamento diurno di Messina, nel quale erano periti oltre 15.000 civili. Il parroco, di sera, in piazza, aveva interrotto il rosario cui partecipavano tutta la cittadinanza per dare la parola al maresciallo dei Carabinieri: «Grande bombardamento diurno a Messina», ma avevano tutti visto le interminabili ondate di Fortezze volanti sorvolare Letojanni dirette al capoluogo. «Migliaia di morti. Si sta organizzando un treno con partenza da Giampilieri.» (la stazione del villaggio a qualche chilometro dal capoluogo). Così c’eravamo tutti trasferiti, nel buio più assoluto, rischiarato soltanto dalla pallida luminescenza delle stelle, alla stazione ferroviaria, dove avevamo preso a salmodiare, sotto la direzione del sacerdote, l’ennesimo rosario. Così, era quasi mezzanotte, d’improvviso si udì il fischio del treno che usciva dalla galleria del Capo di Sant’Alessio.

La paura s’impadronì delle centinaia di donne, di bambini, di anziani ch’erano nella gelida stazione: tutti si domandavano se il loro congiunto fosse tra coloro che, scampati, stavano tornando a casa.

Mio padre c’era.

E questa sua remota presenza è una consolazione, un viatico positivo in queste brutte ore che mai avremmo immaginato di vivere.

La pandemia sembra rallentare, ma giustamente ci viene intimato di non abbassare la guardia.

Intanto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, emergono le enormi falle di un sistema di protezione che i numeri tragicamente elevati dicono che non ha funzionato.



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