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03/10/2011 06:34:35

La meditazione biblica

 Persino una delle tre Moire, figure mitologiche che presiedevano agli intrecci arcani ed insolubili del destino, tessendone letteralmente le trame, persino una di loro, Lachesi, era «colei che misurava». Meditando sul mistero che ciascuno è a se stesso, capita di scoprire che molta della nostra sofferenza psichica ed esistenziale nasce dall’aver smarrito la misura: anzitutto, quella che dovrebbe presiedere al giudizio, all’esame, come vuole il termine greco utilizzato da Matteo, di noi come degli altri.
In questo mi colpisce il monito di Gesù: non attenderti per te una misura diversa da quella che utilizzerai per misurare. Mi sorprende, a questo proposito, il fatto che Dio, direttamente, qui non venga menzionato; ecco perché credo che, in primo luogo, anche se non necessariamente in maniera esclusiva, Gesù abbia in mente le nostre relazioni: non è Dio, o almeno, non Lui soltanto, che userà verso di noi la stessa misura che noi avremo adottata ma, ancor prima, l’altro, colui, colei che avremo giudicato. È lui, è lei, che mi esaminerà con lo stesso criterio con cui io l’avrò esaminato. Che cos’è, invece, che ha colpito te, amica mia, quando hai deciso che meditassimo insieme su questa pagina dell’evangelo?
Anna: Gesù in questo passo dell’evangelo parla agli uomini degli uomini stessi, del rapporto che ognuno di noi instaura con gli altri, forse quando dimentichiamo di essere fratelli e sorelle. La sua, per me, non è una parola dura, fredda, distaccata; sembra piuttosto il consiglio che potremmo ricevere dall’esperienza dei nostri cari nonni o dai nostri genitori; di certo da qualcuno che ci ama e vede in noi il “progresso” dei rapporti umani, del rispetto e dell’altruismo.
Gesù parla di giudizio presupponendo un “confronto”: in un occhio la pagliuzza e nell’altro la trave, ed esclude quindi un atteggiamento che probabilmente preferisce non citare. Il giudizio, infatti, non presuppone necessariamente un confronto e può essere esclusivamente frutto dell’egoismo, come esprime chiaramente un proverbio siciliano “Nuddu ti rice: «lavate ‘a facce chi t’addiventa chiù bedda da mia»”, ovvero, nessuno, giudicando il volto sporco di un compagno, gli consiglierebbe di pulirlo per renderlo più bello o, quantomeno, bello come il proprio.
È pur vero che Gesù sembra intendere il giudizio solo in forma negativa e per questo ci esorta a non giudicare («Non giudicate, affinché non siate giudicati»), ma personalmente preferisco dare un accezione positiva e costruttiva a questo termine. Il giudizio può essere inteso come punto di partenza per un fruttuoso confronto tra fratelli e sorelle, come momento di condivisione di diversi punti di vista, come esperienza vissuta da cui estrapolare consigli e abbandonare insicurezze?
Ale: Non saprei, Anna: forse potrebbe essere assunto come punto di partenza proprio il confronto che, però, è ciò che il giudizio, il più delle volte, impedisce o comunque limita fortemente. Se mi sento giudicato, infatti, tendo a non esprimere ciò che penso in libertà e, meno ancora, con serenità. Ho motivo di credere, in sostanza, che il giudizio, quando non lascia spazio al ripensamento, rappresenti più un ostacolo al dialogo che non una possibilità per il raffronto. E questo per una ragione molto semplice: quando ognuno di noi esprime un giudizio, infatti, inevitabilmente parte da sé; ovverosia, misura l’esperienza dell’altro a partire dalla propria. Ma questo, il più delle volte, è improponibile.
L’altro, infatti, possiede un’opinione o assume un atteggiamento diverso dal mio perché diversa è la sua biografia, diversa la sua sensibilità: se intendo rispettarle davvero, devo lasciare che l’altro che ho di fronte si senta libero di esprimersi e, per così dire, devo essere capace di «sospendere il giudizio», su di lei, su di lui, prima ancora che su ciò che fa o dice. Troppo spesso, infatti, il nostro giudizio si sposta da un gesto compiuto o da un’opinione espressa alla persona che ha agito o parlato: in questo modo, la valutazione che esprimiamo diventa, non di rado, una sorta di sentenza, nella quale l’altro non riesce a riconoscersi e in cui si sente in qualche modo imprigionato. A nessuno di noi, infatti, e non certo per caso, piace essere giudicato: soltanto che la clemenza che non abbiamo con gli altri la pretendiamo poi per noi stessi che, sovente, siamo gli unici di fronte a cui il nostro giudizio inflessibile diventa improvvisamente indulgente. Gesù, mi sembra, critica proprio questo atteggiamento, dicendoci: se vuoi comprensività, prima dalla; altrimenti, non pretenderla. In questo senso, come sempre nel suo annuncio, fa appello alla nostra responsabilità: impara a guardare a te stesso, a te stessa, prima che all’altro; dopodichè, quando ti accorgi che ciò che critichi nell’altro, in realtà, è un atteggiamento profondamente tuo, forse sarai più comprensivo. Non pensi che liberarci dal giudizio, che spesso, poi, è pregiudizio, ci aiuterebbe a vivere con meno ansie e timori tanto la vita quanto la fede?
Anna: Credo che «sospendere il giudizio» sia umanamente impossibile, perché esso dà voce alla nostra nozione del bene e del male, nozione che purtroppo risulta essere fin troppo personale e che aiuta e libera noi stessi piuttosto che colui al quale il giudizio è riferito.
Penso che il giudizio sia per noi un modo per tenerci a distanza o per liberarci dagli errori, dal male, dalla scelta sbagliata di qualcun altro. Forse nasce proprio dal desiderio di essere migliori, di essere più umani e più somiglianti al nostro Dio. Sebbene Gesù suggerisca inizialmente di sospendere il giudizio è sul senso della misura che si sofferma ed è proprio a questo riguardo che ognuno di noi può lavorare al fine educare se stesso. Possiamo solo imparare a non rendere esplicito il nostro giudizio, a giudicare esclusivamente per noi stessi; più importante, e senza dubbio più difficile, è imparare ad essere comprensivi, a distaccarsi dalla propria vita, dalle proprie esperienze e dall’ immancabile illusione di conoscere ciò che è bene e ciò che è male, per accogliere la vita, le esperienze e i pensieri dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. È vero che spesso il giudizio è pregiudizio ma a mio parere il primo ha un ottica individuale mentre il secondo collettiva. A tal proposito penso che educarci quanto meno alla “sospensione esplicita del giudizio” e, soprattutto, alla comprensione dell’altro aiuterebbe a vivere con meno ansie e timori la vita e la fede. Allo stesso tempo credo che la fede e in particolare la vita di una comunità possa essere per noi tutti il primo passo verso un cammino di conoscenza dell’altro, al fine di cancellare stigmi e pregiudizi.
Sto ancora pensando al perché Gesù scelga proprio l’immagine della trave nell’occhio e la mia riflessione mi conduce a pensare che forse è proprio l’“occhio” a giudicare, il nostro strato esteriore, la nostra corteccia che tanto ci protegge. Ma se solo ci fermassimo ad ascoltare, utilizzando l’organo di senso che per primo si forma in una creatura nel ventre della madre, forse potremmo percepire più di quanto non riusciamo a vedere.
Ale: Trovo che quanto dici sia profondamente vero, e profondo perché vero, Anna: l’ascolto esprime ancor meglio il cuore e il senso di ciò che prima ho provato a descrivere come dialogo. Senza ascolto, infatti, nessun confronto può realmente aver luogo: è l’ascolto la condizione irrinunciabile, il presupposto necessario affinché un incontro possa realmente avvenire. A differenza della vista, infatti, organo dell’evidenza (che molte volte è soltanto presunta), l’ascolto parte dall’altro e non da sé: non a caso «mettersi all’ascolto» è un atteggiamento che richiede tempo, attenzione, mitezza, umiltà. Ascoltare significa prendere sul serio l’altro, lasciargli spazio, lasciarsi interrogare e, talvolta, persino provocare da lei, da lui: per questo, credo, le persone davvero capaci di ascoltare sono una rarità. Chi ascolta, poi, anche se espone un parere, mette in atto quella che ormai abbiamo battezzato «sospensione del giudizio»: non emette una sentenza «preventiva» e, per ciò stesso, inappellabile; tace, considera e (proprio perché come dicevi tu, Anna, in fin dei conti è inevitabile che avvenga), in conclusione esprime un giudizio.
Non sulla persona, però: soltanto su una specifica cosa che questa persona può aver detto o fatto. Su questo ci è consentito il giudizio, inteso come valutazione circostanziata e non come condanna: anche perché, in effetti, non possiamo evitare di avere un’opinione riguardo a ciò che ascoltiamo o vediamo. Tu mi hai reso attento all’occhio che, certo non a caso, Gesù chiama in causa nel suo ammonimento: ora, invece, vorrei che passassimo a considerare la trave. Perché credi che Gesù utilizzi proprio questa immagine? E perché la riferisce al nostro sguardo, che supponiamo acuto e corretto, anziché allo sguardo dell’altro, nel quale invece, spesso, rileviamo imprecisione e pregiudizio?
Anna: Forse lo sguardo dell’altro è leggermente offuscato dalla pagliuzza che non consente di distinguere bene i contorni di ciò che abbiamo di fronte; è una superficie sottile, lievemente poggiata sulla parte esteriore del nostro occhio, un piccolissimo, quasi impercettibile corpo estraneo. La trave, invece, è qualcosa di più presente: non è in superficie ma attraversa il nostro occhio e così tutto il nostro essere. La pagliuzza offusca la vista ma la trave ci rende completamente ciechi. Per me è spontaneo pensare al pregiudizio come alla trave che ci attraversa: non è solo il nostro occhio ad essere cieco ma lo è soprattutto la nostra coscienza e la nostra capacità di pensare in maniera autonoma. A colui che ha nel proprio occhio la pagliuzza è necessaria solo un po’ d’acqua per ricominciare a vedere in modo limpido, pulito, puro e sincero il mondo e gli altri; ma colui che ha nell’occhio la trave dovrà farsi forza di tanta volontà per bruciare la causa della sua cecità, avrà bisogno del calore di una comunità che, con la propria sensibilità, alimenta il fuoco della fede.
Ale: Credo molto, Anna, in quello che dici: la fede, infatti, deve trarre nutrimento, soprattutto, dalla vita comunitaria, dove l’ascolto è necessario ed il confronto quotidiano. In questo cammino che, da solo, è capace di sottrarci ai rischi dell’autosufficienza, possiamo cominciare a vedere di nuovo limpidamente, come dicevi tu; ad essere coscienti, anzitutto, della trave che rischia di accecare la nostra capacità di giudizio, rendendoci, anziché giudiziosi, giudicanti. Gesù, ancora una volta non a caso, utilizza un termine preciso per descrivere coloro che vivono con questa trave conficcata nell’anima, prima che nell’occhio, e che li rende inclini alla condanna senza riserve del fratello: li chiama ipocriti.
In maniera assai significativa, il termine ipocrita, letteralmente, significa «di poco giudizio»: chi giudica l’altro con disprezzo, in verità, è colui che, paradossalmente, manca proprio di giudizio. Ecco perché l’invito che Gesù ci rivolge potrebbe anche essere letto in questo modo, a parer mio: è meglio mettere giudizio, anziché emetterlo. Al punto che chi davvero mette giudizio, poi, non emette giudizi: ascolta, riflette e si esprime; impara la clemenza e mette davanti e al disopra del giudizio la misericordia, ovvero quella capacità di «volgere il cuore alla miseria». Quella stessa miseria che uno sguardo onesto è sempre disposto a riconoscere in sé assai prima che nell’altro.



Domenica 2 Ottobre 2011 – Annamaria Savona & Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com