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07/01/2013 13:38:08

La meditazione del pastore valdese: 'Sedotta e abbandonata'

Ora, vista la reazione indignata dei mass-media e di una parte consistente dell’opinione pubblica, la cosa sembrerebbe non doverci preoccupare più del dovuto: del resto, sottolineano alcuni, si tratta di settori del tutto marginali, di persone che si qualificano da sole e che, quando rilasciano interviste come nel caso del già citato sacerdote, non fanno che confermare il sospetto d’ignoranza che li circonda. Dunque, niente allarmismi: il pensiero dei più è lontano anni luce da questa trivialità. Sarà, ma io non ne sono così sicuro. Certo, i più si astengono cautamente dal manifestare il proprio pensiero al riguardo: ma ciò non significa che non siano disposti a giustificare, anche in buona parte, le assurdità che quel manifesto increscioso elencava. Oppure è soltanto a me che capita, anche piuttosto sovente, di sentir dire: «La violenza non si giustifica, per carità: ma certo che anche le donne ci mettono del loro. Se soltanto evitassero di provocare…». E via discorrendo, nel più classico dei maschilismi da bar che, in casi sempre meno rari, è stato persino fatto proprio da alcune donne. E le chiese? Che ruolo svolgono in tutto questo? Si sarebbe inclini a pensare: un ruolo educativo, se è troppo attendersi un atteggiamento critico o, men che meno, di denuncia. E invece, nell’immaginare ciò, le si sopravvaluta. Ora, fatta eccezione per una fetta consistente del protestantesimo cosiddetto «storico», al quale, almeno formalmente, le nostre chiese aderiscono, la maggior parte delle realtà ecclesiali continuano ancora oggi, dopo secoli di ingiustificabile oppressione, a relegare le donne ai margini della vita comunitaria ed istituzionale. Eppure, vangeli alla mano, questa dovrebbe suonare come una contraddizione inaccettabile: vangeli alla mano, già. Ma il canone biblico è vasto, si sa, e all’occorrenza è sempre possibile trovare una legittimazione anche alle cose più turpi. La responsabilità, però, non è della bibbia che, in quanto tale, è il risultato di un processo di redazione che abbraccia un percorso di evoluzione sociale, culturale e religiosa lungo secoli: la bibbia, infatti, non fa che raccontare questo cammino complesso e contraddittorio. Chi conferisce alle Scritture un ruolo che non compete loro sono le chiese e le loro teologie: lì sono state edificate prigioni, quelle che la bibbia, se non viene eretta a sistema dottrinale unitario e infallibile, non può erigere. Ma certo, se l’umana architettura di un testo viene divinizzata in senso improprio e intesa come verità incontestabile e non soggetta all’azione del tempo, allora si spalancano le porte alle più macroscopiche aberrazioni.   Il testo che abbiamo ascoltato quest’oggi, che può sembrarci talmente superato da non dover meritare la nostra attenzione, riflette al contrario dei contenuti che stanno ancora alla base dell’organizzazione interna e della riflessione teologica di molte chiese o, per essere più precisi, della maggior parte di esse. Inutile rendere attenti al fatto che si tratta di un brano che è opportuno situare nel suo contesto: questa, obiettano gli integralisti, è la lettura svolta da quanti sono ormai venuti a patti con la modernità, notoriamente, la più tremenda delle bestie. A lei, infatti, non certo alla chiesa dei santi a cui solitamente viene ricondotta l’immagine del tutto mistificata del cristianesimo primitivo, vanno imputati tutti i mali che affliggono questo mondo. La chiesa di Timoteo, nell’immaginario fondamentalista tutt’oggi vivissimo, rappresenta una sorta di paradiso perduto, un ideale a cui guardare con un misto di nostalgia e rimpianto. Lì tutto funzionava a meraviglia perché ciascuno restava al proprio posto: quello della donna era il silenzio. Non le si addiceva in alcun modo, difatti, l’insegnamento: il quale, come il brano suggerisce, è da intendersi come un ruolo attraverso cui esercitare il dominio. L’insegnante, difatti, non si contraddice, secondo le migliori tradizioni autoritarie. In questo stesso senso qualcuno, ancora oggi, stabilisce i propri dogmi parlando ex cathedra, come il professore che si rivolge ad alunni il cui ruolo è esclusivamente quello di prendere appunti e di non porre domande. Chi scrive a Timoteo dice chiaramente: «A una donna non permetto». Chiunque ella sia: la sua storia, la sua saggezza, le sue qualità sono irrilevanti. Il semplice fatto di esser donna la squalifica in partenza. A nessuna di loro, dice chi scrive, vantando autorità apostolica, permetto: non «è permesso», con l’eleganza minima concessa a quest’espressione brutale dalla forma impersonale del verbo. No: qui la legge è l’apostolo, o chi per lui, e il suo pensiero, per quanto triviale, non si discute. Ma il meglio deve ancora venire. Già, perché l’aspetto più curioso riguarda le motivazioni teologiche portate da chi scrive a sostegno della sua tesi. Ve le rammento: «Adamo, infatti, fu plasmato per primo». Strabiliante: davvero mirabile, non c’è che dire. Una prova talmente debole da non dover certo richiedere chissà quale competenza esegetica per essere, non dico confutata, ma persino derisa. Eppure all’autore dell’epistola e a tanti, ancora oggi, sembra trattarsi di un argomento sufficiente a legittimare l’esercizio di un dominio ottuso e violento. Del resto, le motivazioni per un risentimento ci sono tutte: ci illumina, difatti, l’apostolo o chi si para dietro lo scudo della sua autorità: «Adamo non fu ingannato, ma la donna, sedotta, cadde in trasgressione». Se non fosse stato per lei, l’uomo avrebbe seguitato nel suo stato di beata innocenza. Peccato che la seduzione fosse quella della conoscenza, quella stessa alla quale i bigotti di tutti i tempi continuano e continueranno sempre a rimanere insensibili perché fondamentalmente recalcitranti, ostili. Ma nel nostro brano chi scrive intende difendere l’immagine dell’uomo irreprensibile, padre di quell’obbedienza che nulla obietta propria dell’attitudine militare, avvezza come nessun’altra all’inguaribile amore per la gerarchia. La donna, al contrario, indaga, osa, sconfina: inaccettabile per chi fa dell’ordine prestabilito la sua unica dimora. Ma anche per la donna, per questa creatura curiosa e impenitente, nella sua grande clemenza l’apostolo o il suo successore, che come molti ha la pretesa di parlare in nome di Dio, prevede la possibilità di un riscatto, di una redenzione: dalla sua arroganza ella potrà salvarsi diventando madre. Si tratta, in maniera a dir poco inquietante, degli stessi consigli dispensati alle donne dagli odierni paladini della famiglia, il cui focolare, come novelle vestali, esse sono chiamate ad accudire, possibilmente, va da sé, avvolte in abiti decorosi e pudichi.   Ora: affermare che queste cose, poiché contenute nell’epistola a Timoteo, un testo tardivo nel quale si intravedono i primi germi di quella che sarà la configurazione istituzionale della chiesa antica, siano perciò stesso parole vincolanti per la fede cristiana, mi pare, questo sì, un sacrilegio, un’offesa all’intelligenza, prima ancora che alla sensibilità. Ma anche attribuirne la paternità all’apostolo Paolo, che del resto nel capitolo 11 della prima epistola ai Corinzi non si esprime in modo poi così diverso, non conferisce loro, per quel che mi riguarda, una maggiore dignità. Degne, difatti, sono soltanto quelle parole che obbediscono ad un evangelo della piena umanizzazione, che fu quello predicato e, prima ancora, vissuto da Gesù. Dal resto, voglio credere, disponiamo della maturità sufficiente per prendere le distanze, per dire, senza tentennamenti: qui non può celarsi il volto del Dio d’Amore. Nessuna autorità, infatti, può inibire la nostra intelligenza al punto da renderla accessoria o persino dannosa; e nessuna autorità, foss’anche quella delle Scritture, può offuscare la nostra coscienza o sopprimere la nostra sensibilità, alla luce delle quali, soltanto, ogni autorità è questionabile. Questo dobbiamo imparare ad affermarlo a chiare lettere, senza timori reverenziali che, come cristiani prima e come protestanti poi, non ci appartengono. Ma, per poterlo affermare, abbiamo bisogno che le donne, uscendo da quel silenzio in cui spesso seguitiamo a relegarle, continuino ad infondere alle nostre chiese almeno un pizzico della loro creatività, del loro spirito indomito, della loro intraprendenza.   Domenica 6 Gennaio 2012 – Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com