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28/04/2013 04:59:41

L’economista e il povero. Dialogo sulla ricchezza, in riva al mare di Lilibeo

Questo racconto di speranza è dedicato alla memoria di tutti coloro che negli ultimi anni si sono tolti la vita a causa dell’ingiustizia sociale, della disoccupazione e della miseria.

 

Con selvaggia fatica accresciamo il mucchio delle ricchezze, e intanto la vita diventa infelice

Porfirio, Lettera a Marcella, XXIX

 

 I pochi ricchi sono la causa dei molti poveri

Pelagio, Sulle ricchezze XII, 2

 

 

 

Parte 1

In un pomeriggio di settembre un professore di economia si trovò a passeggiare sul lungomare di Marsala, proprio nel punto estremo d’occidente dove le rocce brune si protendono per breve tratto fra le onde, come per indicare la lontana isola di Marettimo che all’orizzonte, quando non c’è foschia, si staglia misteriosa nella sua forma pura di montagna sacra. L’economista aveva fretta: entro le otto doveva tornare nel suo albergo di Erice, dove per la cena di gala lo attendevano gli altri conferenzieri che avevano partecipato al convegno internazionale sulla “sostenibilità del welfare nelle prospettive del mercato globale”. Perciò dette un’occhiata all’orologio da polso, e con aria preoccupata allungò il passo verso l’auto blu che lo attendeva non lontano. Ma dopo pochi istanti, di colpo si fermò. Una curiosa immagine gli era apparsa. Era un uomo, un solitario che sedeva sull’ultimo scoglio del Capo Boeo e contemplava il mare, incurante del vento di maestrale e degli spruzzi d’acqua che gli volavano intorno, e nelle mani teneva ben protetto un piccolo libro aperto in cui ogni tanto immergeva lo sguardo, recitando ad alta voce chissà quali parole.

L’economista non era tipo che amasse perdere il suo tempo in chiacchiere, soprattutto con gente stravagante e ignota. La fama della sua serietà, del suo alto sapere e della sua indiscussa autorevolezza s’era già consolidata da decenni in ogni parte del mondo. Come ogni sereno cavallo di razza, in vita sua il professore non si era mai azzardato a scavalcare il recinto delle razionali certezze quotidiane. E in quel momento, l’eccellenza del suo stato e della sua missione – che da puramente scientifica stava per innalzarsi a un ruolo politico di primissimo piano – non poteva consentirgli di scendere dall’asciutto marciapiede del lungomare per andare a macchiarsi le scarpe fra gli spruzzi salati che frustavano gli scogli. Ma quella strana visione lo colpì, come il bagliore di una meteora che avesse infiammato il cielo davanti ai suoi occhi. Perciò si volse al promontorio, discese alcuni gradini, superò barcollando le asprezze rocciose e s’accostò trepidante alle spalle dell’ignoto lettore, che declamava con voce calma e chiara i versi di una strana poesia:

Arcano vessillo è piantato

nel tempio del cielo;

là è disteso il baldacchino azzurro, adorno della luna

e tempestato di fulgide gemme.

Là, la luce del sole e della luna risplende:

riduci al silenzio il tuo pensiero,

innanzi a tanto splendore.

Kabir dice: colui che ha bevuto di quel nettare

vaga come un folle.

Il solitario rimase poi assorto nel silenzio, e immobile come una statua si pose nuovamente a contemplare l’orizzonte. Forse non s’era accorto dell’uomo che stava in piedi alle sue spalle? L’economista fu colto da un timore. Esitò. Fu sul punto di tornare sui suoi passi, ma proprio in quel momento l’ignoto eremita del Boeo si voltò e lo salutò con un sorriso allegro, per nulla sorpreso, come se avesse visto in lui un caro amico che a quell’ora si trovasse per abitudine a vagabondare in quei paraggi. Fu come una seconda folgore per il professore, che sentendosi ispirato da una curiosità improvvisa chiese al solitario: «Avete detto… Kabir?».

«Sì… sapete chi era?».

«Ovviamente no».

«Perché ovviamente?».

«La poesia esotica non è il mio forte. Ma devo ammettere che questa aveva un suono affascinante, benché non abbia afferrato gran che del suo senso. È di un arabo?».

«No, è di un indiano. Visse a Benares cinque secoli fa, era un mistico».

«Induista o musulmano?».

«Kabir rideva di queste distinzioni. I suoi discepoli, i più stupidi, non sapevano che pesci pigliare con lui, e lui li prendeva in giro amabilmente. A tale proposito c’è una leggenda. Quando Kabir morì, i musulmani lo volevano seppellire, mentre gli induisti lo volevano cremare. Dopo lunghe e roventi discussioni, alla fine, esausti, decisero insieme di togliergli il sudario, ma ecco che al posto del suo corpo apparve loro un mucchio di fiori! Così furono tutti contenti: i musulmani presero una metà dei fiori e la seppellirono secondo il loro rito, e gli induisti presero l’altra metà e la cremarono in riva al Gange. Ecco perché la poesia dice: riduci al silenzio il tuo pensiero. Perché al mistero di Dio non può accostarsi chi vive tra liti, distinzioni e schiamazzi. Ed ecco perché dice: vaga come un folle. Perché il nettare della verità estingue la sete d’identità e vanifica le certezze razionali».

Il maestrale, intanto, aveva cominciato a placarsi. L’economista si guardò intorno. Vide un piccolo sedile di scoglio non troppo bagnato, vi stese sopra un giornale e vi si accomodò con un sospiro di soddisfazione. Osservò in silenzio il solitario, e riconobbe in lui i segni di una profonda e quasi misteriosa dignità. L’uomo era anziano, ma di un’età indefinibile. Lo sguardo e il portamento erano quelli di un giovane. Il fisico asciutto, diritto. La voce limpida, appassionata e mite. Il sorriso sincero, solo velato a tratti da tenui lampi di ironia. Ispirava un senso di equilibrio, di serenità, di speranza. La sua semplicità sembrava emergere dall’abisso di un mondo remoto. E in quell’abisso il professore affondò i suoi occhi, e dimenticò l’auto blu che lo aspettava, la cena di gala e i suoi impegni. Volle conoscere meglio l’eremita, e non esitò a rivolgergli una nuova domanda: «Vi prego, ditemi chi siete e perché vi trovate qui a recitare i versi di un mistico indiano di cinque secoli fa. Voi mi sembrate un uomo straordinario».

L’uomo sorrise divertito: «Straordinario io? Per carità… e poi che importa chi sono? Sono un povero, come tutti. E i versi che recito non sono altro che un esercizio di memoria, in ogni senso».

«Voi non avete l’aspetto di un povero. E ciò che avete detto su quella poesia non lo crederei frutto di un puro esercizio di memoria».

«Voi mi state forse giudicando per l’aspetto esteriore? Perché ho la barba fatta, e la camicia pulita e stirata?».

Il professore non rispose. Il suo pensiero precipitò come in un vuoto d’aria della mente.

Il solitario sorrise in modo ancora più ironico e allegro. Poi continuò: «Perdonatemi, non intendevo svalutare il vostro giudizio. Vi assicuro, in realtà voi avete ragione: io non sono un povero… dal punto di vista materiale. Anzi, se è per quello io mi considero ricchissimo, grazie a Dio! Non mi manca nulla di ciò che può rendere una vita felice. Una pensione modesta ma sufficiente ai miei bisogni, una piccola casa in questa bella città baciata dal sole, e poi soprattutto una buona moglie, figli e nipoti adorabili, e una salute che ancora, alla mia età, mi consente di gustare i cibi che amo, di leggere e di studiare, di camminare a lungo di buon passo e di nuotare come un vecchio pesce nell’acqua limpida di questo mare. Dite voi se non mi posso definire un uomo ricco e fortunato!».

«Che mirabile esempio di saggezza… voi mi ricordate il personaggio di un racconto che mi capitò di leggere molti anni fa. S’intitolava La capanna indiana, se non vado errato. Quell’uomo era un paria, un reietto della società, ma anche lui affermava di essere la persona più felice del mondo, nella sua povera dimora nascosta tra i palmizi e accanto alla sua buona moglie, con l’immancabile compagnia di un cane e di un gatto. E guardate un po’ la coincidenza: anche lui era un indiano, come il vostro Kabir. Che deliziosa favoletta! M’incuriosì, era scritta assai bene… ma io già allora mi occupavo seriamente di economia, stavo per laurearmi alla Bocconi di Milano con una tesi sulle dinamiche del capitalismo finanziario, e la storiella dei due cuori felici in una capanna, in cui tanto credeva il romanticissimo Bernardin de Saint-Pierre, non mi parve altro che un’antiquata fantasia letteraria, o una graziosa stupidaggine da utopisti salottieri, tanto per usare un paio di eufemismi. Una variante del classico mito del buon selvaggio rousseauiano, per essere ancora più chiari; lo stesso mito che penetrò nel marxismo visionario di personaggi esaltati come Paul Lafargue, grandemente ammirato da un certo Lenin… Ma perdonate la mia impudenza se ora vi chiedo come sia possibile che voi, un uomo del vostro talento intendo dire, non desideriate mai di possedere maggior copia di beni, di denaro, e una possibilità ben più grande di godere le gioie della vita. Insomma, scusate la rozzezza del concetto e dell’espressione: voi siete ben sicuro di non avere mai invidiato nemmeno un poco i veri ricchi, e di non aver mai sognato i tesori di Ali Baba nemmeno nel recesso più occulto del vostro cuore?».

«Il più grande tesoro di Ali Baba, come anche quello di Aladino, altro non era che la sua purezza interiore: ecco perché ebbe sempre fortuna. Al contrario di suo fratello Qasim, che fu fatto a pezzi dai ladroni a causa della sua avidità. Proprio così dice la favola: “La sua avidità gli fece dimenticare la parola segreta Apriti sesamo!”. Abbagliato dall’oro e dalle gemme, prigioniero nel buio della grotta incantata, il poveruomo perse la memoria di ciò che veramente conta nella vita, la magica formula che schiude la porta di tutti i veri tesori, ossia la purezza del cuore, la povertà dello spirito, il distacco dalla vanità dei beni materiali… Eppure è ovvio, caro professore, che anche in questo caso voi avete ragione da vendere. E le vostre insinuazioni non sono affatto rozze. Perdonate, ma sono semplicemente banali… A questo punto, però, voi mi obbligate a raccontarvi in breve un pezzetto della mia vita, altrimenti non vi sarebbe possibile capire le conclusioni a cui sono arrivato. In primo luogo, credetemi, il denaro e l’arricchimento materiale non sono mai stati la stella polare dei miei pensieri. Sono nato e cresciuto con mio fratello in una famiglia benestante. Mio padre occupava un posto di prestigio in una grande società del Nord, ma in famiglia non parlava mai di soldi, di affari o di carriera. Parlava solo di antiche vicende della sua terra lontana, di cultura, di storia, di musica e di arte. Lui stesso amava dipingere. Ci portava nei musei, nelle antiche chiese, ai concerti. Amava la natura e gli animali, ed era uno spirito profondamente religioso.

Fu questo il mio esempio, e fu questa la strada che anch’io imboccai nella vita. Dopo la laurea intrapresi una via professionale non facile, ma ebbi talento e fortuna. Le mie capacità furono riconosciute, mi si aprirono le porte di una brillante carriera. E infine arrivai anch’io, come mio padre, a conquistare un ruolo di alto prestigio in un’azienda importante. Cominciai a guadagnare lauti stipendi, a godere di benefit e privilegi, a viaggiare in business class e alloggiare in hotel lussuosi, e ad avere ai miei piedi stuoli di adulatori e di questuanti che mi davano del “grande direttore”. Nel frattempo mi ero sposato con una donna bellissima, molto più giovane di me: una meraviglia che tutti mi invidiavano non solo per l’avvenenza fisica, ma anche per il suo spirito acuto e dolcissimo. Ma la scalata alle gioie terrene non era ancora finita. Avevo acquistato con un mutuo oneroso una stupenda villa di tre piani in campagna, circondata da un grande giardino. E in garage avevamo tre automobili. Vacanze, ovviamente, in Sardegna, a Pantelleria e in altri posti da favola. Ma voi pensate, caro professore, che io allora fossi felice come lo sono adesso? No, niente affatto, credetemi. Guardatemi bene negli occhi, mio caro economista, e assicuratevi che io stia dicendo la verità: quelli furono gli anni peggiori della mia vita. Mi sentivo rodere dall’insoddisfazione, dalla voglia di andare ancora più in alto, dal timore di cadere e dall’ansia di consolidare la mia posizione. Sul lavoro avvertivo l’insidia strisciante di avvoltoi e serpenti invidiosi. I soldi non mi bastavano mai. Anche mia moglie trovò un bel lavoro, ma nemmeno i due stipendi bastavano per tenere qualcosa da parte alla fine del mese. Cominciai a soffrire di periodiche depressioni. Mi aggredivano con violenza almeno due volte mese, e ogni volta duravano non meno di tre o quattro giorni: in pratica, quasi la metà del mio tempo se ne andava in malinconia, rabbia e frustrazione. Ma quel che è peggio è questo: mi ero convinto che il vero problema fossero i soldi, che se ne avessi avuti di più avrei risolto ogni cosa, anche i momenti di tensione con mia moglie, che diventavano sempre più frequenti. Arrivai al punto di tormentare mia madre per convincerla a vendere il grande appartamento in città, dove lei ormai viveva da sola, per farla andare ad abitare in una casetta molto più piccola e ottenere per me una buona parte della differenza di prezzo tra le due case. Giuro che in quel periodo, se ne avessi avuta l’occasione, sarei stato capace anche di rubare. Dio che vergogna, quando ripenso a quei giorni! E che doloroso rimorso, quando ricordo la passione egoistica che avevo per mia moglie, e che allora mi ostinavo a confondere con il vero amore!

Ma ecco che poi fu proprio il buon Dio a tendermi improvvisamente la mano, a liberarmi da quella febbre malsana, a guarirmi dalla meschinità e dalla follia. E lo fece, naturalmente, nel modo più doloroso e terribile: costringendomi a recuperare la memoria».

«La memoria… nel senso che intendevate prima, a proposito di Kabir, e del fratello di Ali Baba?».

«Esattamente».

«Cosa vi accadde dunque? Me lo potete dire?».

 

Massimo Jevolellawww.massimojevolella.it

(Fine della parte 1 – Continua – Tutti i diritti sono riservati a norma di legge, e appartengono all’Autore. Nessuna parte di questo scritto può essere riprodotta in alcun modo senza l’autorizzazione scritta di Massimo Jevolella)