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26/05/2013 04:22:20

L’economista e il povero. Dialogo sulla ricchezza, in riva al mare di Lilibeo - 2° parte

Riassunto della parte precedente (che potete leggere cliccando qui)

La scena si svolge al Capo Boeo. Un celebre politico e professore di economia, di passaggio a Marsala, incontra un povero pensionato e tra i due s’intreccia un dialogo. Il povero narra la storia di un periodo travagliato della sua vita, per far comprendere in che modo egli sia giunto alla conoscenza di ciò che si debba intendere veramente con la parola “ricchezza”. Racconta che un tempo egli aveva un lavoro prestigioso e molto ben pagato, una moglie bellissima e una stupenda casa. Eppure non era felice. Ma un giorno all’improvviso tutto cambiò. L’economista gli chiede allora: «Cosa vi accadde dunque? Me lo potete dire?».

 

Parte 2 – Una notte d’estate

«Certo, io non posso più avere segreti con voi! Ma c’è un uomo che vi sta chiamando, là sul lungomare».

Il professore non se n’era accorto. Si girò, e vide il suo autista che si sbracciava, indicandosi il polso. Esitò qualche istante, e poi disse: «In effetti è tardi, ma non importa. Ora gli vado a dire che mi dovrà aspettare». E poco dopo l’economista e il povero furono di nuovo seduti l’uno accanto all’altro, davanti al mare del Boeo che si faceva sempre più calmo e di color cobalto, mentre il cielo si schiariva, tingendosi lentamente di zaffìro e schiudendo la vista perfetta dell’isola di Marettimo sull’orizzonte.

Il povero riprese il suo racconto: «Tutto ebbe inizio in una notte d’estate, nel bel mezzo di una delle nostre favolose vacanze. Dormivo accanto a mia moglie in una casetta da sogno, sulla costa di un’isola greca. A un tratto lei emise un acuto lamento. Mi svegliai, le chiesi cosa avesse, e lei si mise a piangere. Mi confessò che da giorni sentiva uno strano dolore al centro del petto, ma non aveva avuto il coraggio di dirmelo, perché sperava fosse solo un disturbo passeggero, e anche perché non voleva rovinare l’incanto della nostra vacanza. In un istante compresi che tutto stava per cambiare nella nostra vita. Pochi giorni dopo tornammo in Italia. Lei fece subito le analisi, e le scoprirono una massa tumorale nello sterno. Furono inutili le cure e le sofferenze. Era un cancro osseo molto aggressivo. Mia moglie sopravvisse al martirio per poco più di due anni. Ma proprio allora, mentre lei moriva nel corpo, io cominciai a rinascere nello spirito. All’improvviso mi accorsi di amarla veramente, e giorno dopo giorno il mio amore si depurò di tutte le scorie passionali, sensuali ed egoistiche, e divenne sempre più profondo e totale. Avvenne in me una vera e propria conversione. Mi resi conto, con doloroso pentimento, del vero abisso in cui ero stato trascinato dalla mia vana insipienza. Molte cose che prima credevo essenziali mi apparvero in tutta la loro fatua inconsistenza. Svanirono come d’incanto le depressioni, e una forza serena si accampò stabilmente nel mio cuore. Mi dedicai a mia moglie con tutte le mie forze, la circondai di ogni delicatezza, feci l’impossibile per allontanare da lei il pensiero della malattia, per darle l’illusione che si potesse continuare a vivere una vita normale. Ma non voglio dire di più su questo capitolo della storia. Vi sono tanti meravigliosi particolari che preferisco conservare nel segreto della mia memoria».

«Ne avete ben diritto».

«Ma nel frattempo era esplosa un’altra bomba sul cammino della nostra vita. Era settembre. Mia moglie combatteva da un anno contro il tumore, ed io ero appena tornato al lavoro dopo le ferie estive. Le cose andavano bene per l’azienda, nonostante le prime avvisaglie della grande crisi economica che si profilava all’orizzonte. La mia posizione, in particolare, appariva solida e indiscussa. Il settore che dirigevo era in crescita, macinava profitti e conseguiva prestigiosi riconoscimenti a livello internazionale. E intorno a me strisciavano le solite ombre inquiete di adulatori e serpenti. Che dire? Potevo attendermi solo una nuova promozione e un altro aumento di stipendio. Invece un giorno il presidente mi chiamò nel suo ufficio e mi annunciò il licenziamento. Non seppe darmene delle plausibili motivazioni. Abbassava lo sguardo, mentre mi parlava. Si limitò a dire, non senza imbarazzo, che il nostro feeling si era spezzato. Ma si trattava solo, come più tardi appresi con certezza, di una vittoria dei serpenti. Un perfetto agguato, una congiura tramata dai mediocri nel torbido di miserabili invidie…».

«Già, i mediocri… voi non sapete quanto mi stia a cuore il tema della meritocrazia! Mi batterò per farne una priorità nell’agenda politica del governo. Sapete, mi rendo conto sempre di più che in Italia sono troppo spesso i peggiori a far carriera, mentre molti dei migliori vengono emarginati, sconfitti, e magari costretti a emigrare per vedere riconosciuti i loro meriti. Questa nazione ha bisogno di una svolta nell’autentico spirito competitivo della democrazia liberale… ma scusate, vi ho interrotto. La vostra storia mi sta davvero toccando. E quale fu la vostra reazione alla notizia del licenziamento?».

«Mi si oscurò la mente. Per un momento ebbi l’impressione che anche i miei occhi si fossero accecati. Fu come ricevere una dichiarazione di morte, come se la mia vita fosse stata tutta in un sol colpo cancellata, i lunghi anni degli studi, i sogni, le conquiste, l’impegno professionale, i successi, il prestigio, tutto annientato, azzerato in un istante, e senza poterne capire la ragione. Mi sentii estraniato da me stesso, mi guardavo dall’esterno e dicevo: tu sei morto, e io sono la tua anima che vaga nelle nebbie dell’oltretomba. Una parola, come un proiettile, può uccidere in un istante. E di noi non rimane che un corpo inerte, disanimato, crollato al suolo come una marionetta staccata dai suoi fili. Ecco perché gli americani, molto più esperti di noi in fatto di armi da fuoco, per dire licenziato dicono fired, come voi ben sapete».

«Eppure non eravate morto, e a quanti capitano disgrazie anche peggiori! Con la forza di carattere ci si può sempre rialzare, trovare nuove strade, imprevedibili e magari anche più belle. Come economista, posso dirvi che i licenziamenti sono un complemento fisiologico del sistema produttivo. Anzi, in molti casi possono servire da stimolo per la crescita delle professionalità e per la dinamicità del mercato del lavoro. E poi, perdonate, ma in quello che dite credo di scorgere un filo di risentimento mai sopito. E questo non va bene. Questo rancore getta un’ombra sul profilo sereno della vostra saggezza. Quanti anni sono passati dagli eventi che mi state raccontando?».

Il povero sorrise, e dopo aver lanciato uno sguardo intenso in direzione di Marettimo riprese a parlare: «Bravo professore, voi siete acuto e avete sempre ragione. Sono passati dodici anni da allora. Rancore? Sì, non lo nego, ma non è per me, non è per il mio destino, e presto ve ne darò la prova. Ciò che mi fa soffrire, e che infonde alla mia voce il tono del risentimento, è in realtà il dolore che vedo crescere intorno a me di giorno in giorno. Un dolore che non posso non sentir bruciare anche sulla mia pelle, fino a penetrarmi nelle viscere. Insisto a dire: io sono un uomo veramente felice, grazie a Dio. Ma felice non vuol dire insensibile. Non vuol dire ignorare il dramma delle persone che senza tregua finiscono immolate sull’altare di un sistema economico fondato sull’ingiustizia sociale, sull’ingordigia sfrenata dei poteri finanziari, sulla voluttà di dissoluzione del genere umano. Una nave dei folli lanciata verso il nulla, verso il terribile gorgo in cui tutti prima o poi scompariremo. Come nello spaventoso maelström evocato nei racconti di Poe e di Verne».

«Che parole enormi… follia, maelström, dissoluzione. Ora assumete il tono di un profeta apocalittico. Non sono d’accordo con voi, è ovvio. Questa grande crisi economica ha una sua logica spietata, non lo si può negare, ma il suo aspetto catastrofico è in fondo solo un’apparenza, perché in realtà il sistema ha bisogno proprio delle crisi per potersi rigenerare… Ma lasciamo stare l’argomento, vi prego, almeno per adesso. M’interessa la vostra storia. Come reagiste al licenziamento, dopo il trauma dei primi momenti?».

 «Quella sera tornai a casa barcollante e stordito. Non dissi nulla a mia moglie, finsi di essere stanco, mi gettai subito a letto e sprofondai nel sonno come una pietra nel mare. La mattina dopo mi alzai con una gran voglia di combattere. Cominciai subito a mettere in atto tutto l’immaginabile per trovare un nuovo lavoro, per uscire dall’incubo a testa alta e nel più breve tempo possibile. Ma passarono i giorni, le settimane, i mesi, e nulla accadde di buono. Il licenziamento mi aveva colto di sorpresa, e ora mi rendevo conto che la mia colpa imperdonabile era quella di essere, agli occhi di tutti, un perdente. Un perdente di cinquantatre anni. Un condannato a morte senza appello sul mercato del lavoro. E non avevo protezioni potenti. In vita mia non avevo mai messo piede in una sede di partito, in un golf-club o in un salotto buono a caccia di legami e di favori. Le amicizie interessate mi avevano sempre dato il voltastomaco. Imitando l’esempio di mio padre avevo costruito la mia carriera solo sullo studio, sull’impegno e sul valore professionale. Odiavo le chiacchiere e le trame degli affaristi e dei venditori di fumo».

«Ma continuaste a lottare, a cercare lavoro?».

«Sì, certo, ma con sempre più debole convinzione. Passò così un anno intero, e venne il giorno in cui morì mia moglie. Fu il colpo di grazia. All’improvviso mi sentii svuotato: non ero più obbligato a credermi e a mostrarmi sereno per sostenere psicologicamente una donna in fin di vita, ed ero ormai anche rassegnato all’idea che mai più avrei ritrovato un lavoro. Dovetti affidarmi ai farmaci per resistere alla depressione. Ma grazie a Dio non precipitai nell’inerzia totale. Decisi allora di mettere in vendita la villa, perché i soldi della liquidazione si erano già esauriti e non mi era più possibile pagare il mutuo con il sussidio di disoccupazione. Ebbi fortuna, trovai l’acquirente in pochi mesi, ma il guadagno bastò appena per coprire l’estinzione del mutuo; e così in un giorno di primavera, all’età di cinquantacinque anni, mi trovai ad uscire dallo studio di un notaio e dagli uffici di una banca con una catena di pensieri che mi martellavano nella testa: “Sono un uomo finito, avevo tutto e ho perduto tutto: la moglie adorata, il lavoro che amavo, la bellissima casa. Ora sono un povero… un vero povero!  Tra pochi mesi perderò anche il sussidio, e poi sarà la fine. Se non accade un miracolo, vivrò anni e anni di miseria, di solitudine e di vergogna in attesa di una magra pensione. Che ne sarà di me? Come finirà la mia vita? Quali peccati ho commesso per meritarmi questa pena?”».

«E il miracolo avvenne?»

«Ne avvennero tanti, mio caro amico. A dire il vero, da quel momento la mia vita fu tutta una fioritura di miracoli: quelli che potevo prevedere e sperare, ma soprattutto quelli che non potevo nemmeno immaginare».

«È stupefacente. Ma che intendete dire? Vi accaddero cose… inimmaginabili?».

«Proprio così. Mi ero accampato da alcuni giorni nel pied-à-terre di un amico, e tutto ebbe inizio lì, all’alba di una mattina di maggio. Finalmente dormivo e sognavo, dopo aver passato una notte tormentata e insonne. E nel sogno vidi mia moglie, felice, radiosa, bella come un angelo. Io la guardavo, piangendo. Ma il pianto era di gioia. Una gioia intensa, indescrivibile, mai provata prima nella vita. Le dissi: “Sei tornata!”. Lei sorridendo mi si accostò e mi diede un bacio sulle labbra. Poi pronunciò con chiarezza due parole: dieci marzo. E a quel punto se ne andò via velocemente, e io mi risvegliai. Il dieci marzo era il giorno del compleanno di mia moglie… cosa voleva dirmi dunque ricordandomi quella data? Ebbi l’impulso di andare a frugare in una valigia, dove avevo sistemato un grosso pacco di carte che erano appartenute a lei. C’era di tutto, ma subito mi saltò agli occhi un quadernetto azzurro che già altre volte avevo aperto, inutilmente, perché lei l’aveva scritto nella sua lingua straniera di cui non capivo nemmeno una parola. Quel giorno però sfogliai il quaderno con più cura, e mi accorsi che in fondo, dopo le pagine indecifrabili, ve n’erano alcune scritte in italiano. Era un breve diario, che cominciava proprio con quella data: dieci marzo. Mia moglie l’aveva scritto pochi mesi prima di morire. Ricordo bene le prime frasi. Diceva: “Oggi ho quarant’anni, e tra pochi giorni sarà primavera. Ma la primavera, questa volta, non ha fretta di far vedere la sua naturale bellezza; mi sembra che non voglia farmi dispiacere perché sa che non potrò mai più dedicarmi ai lavori di giardinaggio, e questo mi mette una gran tristezza. Oggi ho capito davvero che è iniziato il mio lento pellegrinaggio verso il non ritorno. Ma non ho paura della morte. Ho paura della sofferenza, del dolore, della pietà, e quindi penso che la morte può essere una liberazione per una persona che soffre e per la quale non c’è più niente da fare”.

Restai a lungo a contemplare quelle parole. Mi tornò in mente l’insofferenza che mia moglie aveva manifestato, all’epoca della sua malattia, nei confronti delle persone che indulgevano ai lamenti per i disturbi fisici più banali o per i più futili incidenti della vita quotidiana, invece di ringraziare Dio ogni momento per il dono inestimabile della salute. E col suo impagabile sorriso ironico, a chi improvvidamente le chiedeva: “Come stai?”, rispondeva: “A parte il cancro sto benissimo, grazie”. E sulla scena della memoria mi apparve la vivida immagine di quella donna angelica, ridotta sulla sedia a rotelle negli ultimi due mesi della sua vita, in un reparto di cure palliative per malati terminali. Tutti i giorni andavo da lei, passavamo insieme i pomeriggi, e dalla sua stanza la conducevo giù nel parco della clinica, e in mezzo agli alberi e ai fiori ci guardavamo in silenzio, scambiandoci ogni tanto un sorriso, una dolce parola. Rividi il suo viso consunto, il suo corpo annichilito, il suo sguardo perduto nella sonnolenza dei farmaci a base di morfina. E all’improvviso ricordai che in uno di quei giorni le avevo detto: “Te lo giuro, dovessi morire all’istante se non dico la verità, io sarei pronto a rinunciare a tutto pur di vederti guarita. Rinuncerei anche a un nuovo lavoro, e a tutti i soldi e ai beni materiali di questo mondo, pur di vederti nuovamente in piedi, in buona salute… e vedrai, vedrai, ancora ci sono speranze, tu sei ancora viva, viva”. E lei mi aveva guardato con aria di perdono, con un lieve sorriso che voleva dire: “Amore mio, basta, non dire più niente, lo sai benissimo che sto per morire”.

Ebbi allora un presentimento. Un’idea gioiosa mi sollevò dal torpore dell’angoscia che da settimane mi stringeva il cuore e le tempie come una tenaglia, ad ogni risveglio mattutino. Mi alzai in piedi e mi guardai in un grande specchio. E vidi l’immagine di un uomo sano, di un uomo che per oltre mezzo secolo la buona sorte aveva sempre risparmiato dalle gravi malattie e dalle vere sofferenze corporali. Quasi colto da una vertigine, mi guardai le mani, strinsi i pugni e gridai a me stesso in un misto di euforia e di vergogna: “Pazzo che sei! Come hai potuto pensare di essere povero, se è vero che nessun tesoro del mondo ha più valore di una sola giornata passata senza i dolori di una malattia mortale? Come hai potuto lamentarti della tua sorte e gettarti nella disperazione, pur avendo appreso con certezza, dal dramma di tua moglie, che la salute è un bene assai più prezioso del denaro?”»

«E tuttavia anche la salute è un bene materiale che noi possiamo perdere all’improvviso, proprio come avviene con la perdita di un posto di lavoro. E in tal caso quale altra cosa ci resterebbe, a cui aggrapparci, per non lasciarci vincere dallo sconforto più irreparabile?»

«Nessuna, evidentemente. Ed io ne ero fin troppo consapevole. Ma lei ha usato adesso un verbo che esprime da solo tutto il cuore del problema: ha detto “aggrapparci”. Ed è proprio qui l’errore, è qui l’abbaglio fatale che ci condanna tutti all’infelicità: aggrapparsi alle cose, dipendere dalla sussistenza  effimera dei beni materiali, riporre tutto il nostro essere in ciò che possediamo… perché è evidente che in realtà noi non possediamo nulla, e che il credere di possedere qualcosa è la più tragica delle illusioni. Credendo di possedere, noi siamo in realtà posseduti. E quando siamo posseduti siamo perduti».

«Eppure dobbiamo vivere. E per vivere dobbiamo avere delle certezze. E su cosa dovremmo fondare queste certezze, se non sulle cose reali di cui abbiamo concretamente bisogno? Bene o male, è comunque da esse che la nostra vita dipende. A cominciare appunto dalla salute e dal denaro… oppure voi pensate all’ideale ascetico, alla rinuncia, a quella che i religiosi e i mistici di un tempo chiamavano la “vita contemplativa”?».

«No, amico mio. Voi dite sempre cose giuste e ragionevoli, ma alla soluzione del problema non si può arrivare supponendo che l’unica alternativa sia questa: o dipendere dalle cose, o rifiutarle. No, no… in questo modo si torna semplicemente indietro, ci si arrende davanti all’aspetto illusorio della realtà. E invece occorre andare avanti, squarciare il velo, oltrepassare lo specchio la cui unica funzione è quella di rifletterci la visione immediata dell’esistenza. E per andare avanti dobbiamo ripensare proprio alla ricchezza, dobbiamo capovolgere la falsa idea che noi ne abbiamo».

«Uno specchio… come quello in cui vi guardaste quella mattina di maggio, giusto? Ma se allora fu la visione immediata della realtà a illuminarvi, non vi sembra di cadere adesso in una contraddizione? Cosa significa andare oltre lo specchio? Forse alludete alla magia, a un’idea esoterica… e volete ricondurmi nel mondo delle favole, come nella storia di Alice nel paese delle meraviglie? Ora davvero non vi seguo più».

 

 

Massimo Jevolellawww.massimojevolella.it

(Fine della parte 2 – Continua – Tutti i diritti sono riservati a norma di legge, e appartengono all’Autore. Nessuna parte di questo scritto può essere riprodotta in alcun modo senza l’autorizzazione scritta di Massimo Jevolella)