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31/12/2013 06:15:00

"Fontane d'oro". L'oleificio sequestrato alla mafia di Campobello, che però...

 L’operazione “Eden” che lo scorso dicembre ha smantellato la cerchia più intima di familiari, amici e collaboratori del boss Messina Denaro, ha scoperto anche una storia interessante, che la dice lunga su come, a volte, sequestrare un’azienda ad un mafioso non significa, di punto e bianco, negare alla cosca i ricavi economici dell’azienda. E’ il caso dell’oleificio Fontane D’Oro.

I mafiosi del mandamento di Matteo Messina Denaro puntano da sempre sul business dell’olio, vera ricchezza della provincia di Trapani. Prima, avevano fondato due società che in breve tempo si erano conquistate un certo spazio sul mercato, la “Fontane d’oro” e la “Eurofarida”, poi avevano avviato la gestione di un consorzio fra gli olivicoltori. Il reale scopo dell’iniziativa  era quello di determinare i prezzi delle olive senza sottostare alle regole del mercato, bensì avvalendosi della capacità di intimidazione dell’associazione mafiosa.

In prima linea, nel nuovo business, c’erano due mafiosi manager come Francesco Luppino e Leonardo Bonafede, un giovane e un vecchio di Cosa nostra, tutti e due legatissimi a Messina Denaro. La “Fontane d’oro” era già stata sequestrata nell’ambito dell’indagine Golem. La “Eurofarida” è stata bloccata nel 2011 con il provvedimento di arresto per il Sindaco Caravà, Bonafede e gli altri nove esponenti della mafia di Campobello fermati dai carabinieri. La “Eurofardida” ha un valore di quasi due milioni di euro.

Veniamo a Fontane d’oro. Nell’ambito di un procedimento penale del 2008 (cosiddetto Golem I) la Dda di Palermo accertò che l’azienda “Fontane d’oro sas” a Campobello di Mazara, formalmente intestata ai fratelli Franco e Giuseppe Indelicato, apparteneva invece a quello che viene definito nell’ordinanza, “l’uomo d’onore” Francesco Luppino (considerato dagli inquirenti il capomafia di Campobello di Mazara e ritenuto vicino a Matteo Messina Denaro) il quale, durante la sua detenzione, impartiva gli ordini per la gestione della società attraverso la moglie Lea Cataldo (anch’essa indagata nell’operazione Eden).

Nel corso del procedimento, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo dispose la custodia in carcere nei confronti dei coniugi e ordinò il sequestro preventivo delle quote della società olearia Fontane d’Oro sas, rispettivamente in capo a due soggetti (non indagati in questa operazione) che sono Franco Indelicato[1] e a Giuseppe Indelicato[2] e del complesso dei beni mobili ed immobili pertinenziali appartenenti alla medesima società. Fu sequestrato anche un frantoio nella contrada Corsale di Campobello di Mazara.

Per questi fatti fatti, i prestanome Franco e Giuseppe Indelicato(ripetiamo che non sono indagati in questa operazione) vennero condannati dal Gup di Palermo in sede di giudizio abbreviato con sentenza di primo grado poi confermata anche in appello. Anche Lea Cataldo venne condannata con sentenza confermata in secondo grado.

Quanto a Luppino - nei cui confronti si è celebrato il processo ordinario – il Tribunale di Marsala, con sentenza del 2 maggio 2012, nel ritenere pienamente responsabile l’imputato ha affermato che «dietro l’apparente titolarità delle quote della Fontane d’Oro in capo ai fratelli Indelicato, si celava invece la reale ed effettiva riferibilità delle stesse e di tutto il complesso aziendale in capo al Luppino», riconoscendolo quindi vero ed indiscusso proprietario dell’azienda.

Ebbene, in seguito al sequestro della società e all’arresto di Luppino, le successive indagini dimostrano l’esistenza di un grave processo riorganizzativo volto ad assicurare comunque a Luppino (e per il suo tramite alla famiglia mafiosa) la percezione dei proventi della Fontane d’oro sas sebbene sottoposta ad amministrazione giudiziaria.

Ciò era possibile attraverso l’artificiosa cessione dei rami dell’azienda a taluni soggetti che, fungendo da prestanome di Luppino e di sua moglie, consentivano ai due coniugi di essere gli effettivi affittuari della Fontane d’oro sas e quindi di continuare ad amministrare l’azienda e a percepirne i proventi.

Va evidenziato che, come ricostruito dalla Polizia giudiziaria, il custode giudiziario delle quote della società, Antonio Fresina, il 23 ottobre 2009 cedette in affitto un ramo dell’azienda alla “Peruzza Nicolò e figli snc di Peruzza Vincenzo & C.” per il periodo compreso tra il 20 ottobre 2009 al 31 ottobre 2009 rinnovabile tacitamente; il  7 ottobre 2010 cedette in affitto un altro ramo d’azienda a C. (figlio non indagato di Vincenzo Torino,invece indagato e arrestato in questa operazione) con durata fino al 31 dicembre 2010.

A fronte di tali risultanze documentali, le indagini hanno dimostrato che, in realtà, entrambi gli affittuari (e Vincenzo Torino per conto del figlio C.), per la gestione dell’azienda e la distribuzione degli utili, si rapportavano costantemente con Lea Cataldo, moglie di Luppino, che fungeva da tramite con il marito detenuto.

Peruzza (indagato in questa operazione) e Vincenzo Torino si rapportavano altresì, per i medesimi aspetti, con Aldo Tonino Di Stefano (anch’egli indagato in questa operazione) il quale, da sempre stretto collaboratore di Luppino, si era già occupato per conto di quest’ultimo della gestione occulta della Fontane d’oro sas in epoca antecedente al suo sequestro (informativa dei carabinieri del Ros – I sezione, n. 134/8- 19 del 14 settembre 2011, pag. 53 e ss.).

Peraltro deve rilevarsi che, ancor prima della formale stipula dei due contratti di affitto di rami d’azienda, era proprio Di Stefano e non certamente l’amministratore giudiziario, scrive il Gip Maria Pino a pagina a 480, a intavolare trattative con i due futuri e fittizi affittuari compiacenti, al fine di mantenere in capo a Luppino il controllo e gli utili dell’azienda sottrattagli.

Vincenzo Torino, d’altronde, aveva ben chiaro che il volume di affari originariamente riferibile alla struttura gestita da Luppino andasse inevitabilmente preservato sia a tutela dei i propri interessi che a tutela degli interessi mafiosi della famiglia Luppino, in quanto a seguito del sequestro e agli arresti non avrebbero potuto rifare i guadagni dell’annata scorsa (…«non è che io posso ripetere la stessa annata dell’anno scorso…») a prescindere da quale operatore avesse surrogato l’attività dell’oleificio Fontane d’oro sas («di amici noi ne abbiamo tanti»), facendo emerge in modo chiaro il fondamentale ruolo svolto dai due nella riorganizzazione e le loro intenzioni di dare continuità all’attività, attraverso «il nostro ami(co)….il nostro collaboratore”……se servono olive….o viene da noi o va dal nostro amico è la stessissima cosa». La conversazioni peraltro permetteva di individuare «l’amico» nel «professore» soprannome di Vincenzo Peruzza.

Il prosieguo dell’attività investigativa, i cui esiti sono racchiusi nell’informativa del Ros dei Carabinieri del 14 gennaio 2013, hanno consentito di accertare che durante la prosecuzione della gestione della società sequestrata, da parte di Vincenzo Peruzza, quest’ultimo consegnava una parte dei guadagni della Fontane d’Oro a tre esponenti della famiglia di Campobello, riducendo i proventi di Lea Cataldo (che infatti se ne lamentava). E ciò a ulteriore dimostrazione – si legge nell’ordinanza a pagina 412 – della fittizietà dei contratti di affitto stipulati nonché della circostanza che l’azienda era destinata a finanziare le casse dell’associazione.

Attraverso i riferimenti captati dalle conversazioni intercettate, la Polizia giudiziaria riusciva ad identificare i tre soggetti (non indagati in questa operazione) della famiglia mafiosa in:

1) A.M, organicamente inserito nella famiglia di Campobello di Mazara; 2) F.S., organicamente inserito nella famiglia di Campobello di Mazara; 3) G.I., organicamente inserito sempre secondo quanto certifica il Gip a pagina 415 dell’ordinanza, nel contesto della criminalità organizzata.

La puntuale ricostruzione dei fatti ha consentito dunque alla Dda di Palermo di affermare con certezza che Luppino, reale titolare ab origine della Fontane d’oro sas, e al quale il bene era stato sequestrato, al fine di continuare di fatto a gestire l’azienda per percepirne i proventi, si è servito di un ulteriore escamotage rispetto già all’intestazione fittizia delle quote sociale ormai definitivamente sottrattegli.

«Grazie all’ausilio della moglie Cataldo Lea e del fidato Aldo Tonino Di Stefano – scrive il Gip a pagina 420 dell’ordinanza –faceva intestare i due contratti di affitto dei rami di azienda a ulteriori prestanome e cioè Peruzza Vincenzo, e, attraverso il padre Vincenzo, Torino C..

….

Circa la sussistenza dell’art. 7 DL 152/91, già peraltro riconosciuto nelle precedenti sentenze di condanna aventi ad oggetto l’intestazione delle quote sociali dell’azienda, basti aggiungere che qui risulta ancor più dimostrato l’interesse dell’intera famiglia mafiosa campobellese (e non solo del suo capo Luppino) alla spartizione tra i suoi membri dei proventi della Fontane d’oro».

[1]             Indelicato Franco, nato a Campobello di Mazara il 15/02/1969, tratto in arresto il 16/06/2009 nell’ambito dell’operazione “GOLEM I” e condannato, il 04/11/2010 dal G.U.P. presso il Tribunale di Palermo, ad anni 10 di reclusione (ricorrente in Appello). In atto detenuto presso la Casa Circondariale di Melfi (Potenza).

[2]             Indelicato Giuseppe, nato a Castelvetrano il 19/04/1973, arrestato il 16/06/2009 nell’operazione “GOLEM I”, scarcerato il 02/07/2009, e condannato, il 04/11/2010 dal G.U.P. presso il Tribunale di Palermo, ad anni 3 di reclusione.