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12/01/2014 07:00:00

Don Andrea Parrinello vive nel ricordo dei suoi allievi. Oggi il racconto di Damiano Bua

 

Come ogni domenica ritorna puntuale l'appuntamento del nostro portale con il ricordo settimanale di Don Andrea Parrinello, il grande personaggio sportivo che dal dopoguerra fino agli anni 70 ha rappresentato il principale punto di riferimento per tutti i giovani marsalesi che si sono avvicinati al mondo del calcio, creando un vivaio di giovani calciatori che si sono affermati sia nei tornei giovanili che in molte squadre dilettanti e professioniste. Un comitato nato appositamente e ormai noto, formato da Salvatore Lo Grasso, continua a ricordarlo con una raccolta di racconti e testimonianze che il nostro sito si è impegnato a pubblicare. Eccovi, dunque, anche per oggi, il nuovo:

Episodio raccontato da Damiano Bua, nato a Marsala il 3.12.1950. Ha giocato nell’Olimpia nel 1966 e 1967.

Nel 1964 ho compiuto 14 anni, finalmente le mie fatiche intellettive erano finite. Avevo conquistato addirittura l’agognato traguardo della licenza media. Certo non era un gran ché ma, con una forte raccomandazione che volle per forza farmi mia madre, fui immediatamente assunto come apprendista carpentiere nell’impresa artigianale di mio padre. Sotto la vigilante guida del titolare padre ho imparato sufficientemente bene il mestiere. Come quasi tutti i ragazzi di quell’età ero appassionatissimo del gioco del calcio. Il ruolo che preferivo era quello del portiere. Le ore del giorno in cui non si lavorava le trascorrevo nei campi di calcio, improvvisati fra le piccole aree libere dei vari quartieri della zona dove a quell’epoca risiedevo. Erano pressoché aree devastate dai bombardamenti dell’ultimo conflitto, ancora non del tutto ricostruite. L’area che si presentava maggiormente adatta era esattamente quella posta tra il mercato ittico, nei pressi della Piazza Marconi, e la Via Abele D’Amiani. Un’altra zona, molto adatta, era la piazza del Carmine, dove oggi esiste un lussuoso hotel a tre stelle a l’antico convento del Carmine, attualmente sede della pinacoteca comunale. In quella Piazza oggi, in qualunque ora del giorno, non è possibile trovare un posto auto libero. Sarà colpa della grave crisi economica? Un giorno Giacomo Frazzitta, già veterano e grandissimo giocatore dell’Olimpia, nonché mio cugino carnale, vedendomi giocare nel ruolo di portiere, mi ha detto che se volevo poteva presentarmi al Sig. Andrea Parrinello che, da grande intenditore di calcio e scopritore di talenti qual era poteva sottopormi ad un provino e, se il suo giudizio fosse stato positivo, prendermi nella squadra dell’Olimpia. Cioè la più prestigiosa della città e forse anche della provincia. Quella proposta era una benedizione dal cielo. Una botta di …. da niente! Pregai mio cugino di non cambiare idea e di agire prima possibile. Infatti al terzo giorno sono avvenute le presentazioni al vecchio campo sportivo di porta nuova. Del discorso fatto sotto voce dal Frazzitta, ho distinto soltanto la parola bravino. La risposta che ha dato Don Andrea, invece, l’ho sentita chiara e forte. “ Questo lo vedremo” proprio così ha detto. Nel campionato successivo, quello del 1966, indossavo la maglia numero uno. Ero portiere dell’Olimpia. Il primo allenamento l’ho fatto sotto la sua diretta e personale direzione ed è stato simile ad una tortura. Tutto a base di ginnastica e faticosi contorsioni del corpo. Dopo pochi giorni, finalmente, mi ha messo sotto lanciandomi, con le mani, insidiosi palloni. E’ stato lui che mi ha attribuito il sopranome “ a siccia”. L’equivalente nome in dialetto della seppia. Forse per la similitudine della sveltezza con la quale la seppia cattura le sue prede. Nell’ambiente calcistico marsalese questo è, ancora oggi, il nome con cui sono conosciuto. Non mi dispiace affatto che la gente, parlando di me, adoperi una metafora …anzi tutt’altro. Del resto gli italiani e in particolare, i siciliani sono pressoché insuperabili nel sostituire i cognomi altrui e a riconoscere gli individui o le intere famiglie soltanto col sopranome. Che dire di Don Andrea? Tutto il bene possibile! Solo un bravo allenatore di calcio? No, semmai un allenatore di ragazzi aspiranti a diventare futuri uomini; un uomo che insegnava a dire sempre la verità, qualunque essa fosse, che di fronte alle difficoltà, piccole o grandi, non bisogna mai voltare le spalle, ma guardarle in faccia e affrontarle coraggiosamente. In caso di sconfitta? Rialzarsi e ricominciare daccapo conservando la propria dignità. Queste esatte parole chi, come me, lo ha conosciuto potrebbe e dovrebbe dire di Don Andrea. Come mai, qualche attento lettore potrebbe chiedersi, tutta questa enfasi? Presto detto! Per affermare semplicemente una verità! In fondo questo giudizio è soltanto la somma del risultato che si otterrebbe se si sommasse il significato di tutte le raccomandazioni, i suggerimenti, i buoni consigli che, anche separatamente uno alla volta, da sempre ha dato a tutti i suoi allievi. Una testimonianza personale? Eccola servita. Quando avevo circa 16-17 anni spesso, invece che a casa dei miei genitori, dormivo a casa di mia nonna. La mattina, piuttosto presto, si presentava mio padre per portarmi con sé al lavoro. Non scendeva dall’auto, ma come convenuto, dava dei colpi particolari al clacson dell’auto ed io scendevo prontamente. Una mattina non me la sentivo proprio di andare a lavorare, feci dire da mia nonna che non stavo bene. Mio padre non ha voluto verificare ed è andato in cantiere da solo. Soltanto un ora dopo mio padre ed io ci incontrammo, anzi ci scontrammo, per poco infatti non mi ha messo sotto. Comunque non si fermò, continuò dritto per la sua strada, facendo un movimento con il capo che io interpretai piuttosto minaccioso. Come se volesse dire ne parleremo a casa. Non era più nei miei pensieri quel giorno di andare al campo sportivo di porta nuova, ma fu lì che, invece, poco dopo mi trovai. Poiché ero al cospetto di Don Andrea gli raccontai cosa mi era capitato, gli manifestai pure cosa immaginavo mi aspettasse più tardi a casa. A quell’uomo non bisognò dirgli altro, aveva capito il mio stato d’animo e da buon amico mi rassicurò dicendo, che per quella sola volta, potevo già non pensare più alle conseguenze. Era già nelle sue intenzioni andare di corsa a parlare con mio padre e, quindi, garantirmi che quella mattina niente di particolare era accaduto. Si può definire “ troppa enfasi” o esagerato ciò che penso di quell’uomo?

Marsala, lì 27.08.2013

Damiano Bua