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14/12/2014 06:45:00

Trattativa Stato - mafia, chiesti nove anni per Mannino. Ascoltato Sebastiano Ardita

 Facciamo il punto sul processo per la Trattativa presunta tra Stato e mafia nel '92 - '93. Ci sono importanti novità che riguardano sia il troncone principale del processo che il processo stralcio. Proprio in quest'ultimo è stata chiesta dalla pubblica accusa la condanna per l'ex ministro Calogero Mannino a nove anni di reclusione.  Mancino deve rispondere di attentato a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. La richiesta è arrivata al termine della requisitoria dei pm Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi che sostengono l'accusa - con i sostituti Nino Di Matteo e Francesco Del Bene - anche nel processo numero 1. Per Tartaglia e Teresi, l'ex ministro sarebbe «l'istigatore e il motore» del patto tra pezzi dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi mafiose dei primi anni ‘90. Aveva paura di essere ucciso - hanno spiegato - dopo l'assassinio dell'europarlamentare Dc Salvo Lima (12 marzo ‘92). Grazie ai suoi rapporti con gli ex generali Subranni (tramite il maresciallo Giuliano Guazzelli, assassinato il 4 aprile ‘92) e Mori, avrebbe «sponsorizzato» l'avvio della trattativa. Il carcere duro previsto dall'articolo 41 bis sarebbe stato uno dei punti nodali. La sostituzione - nel governo presieduto da Giuliano Amato - di Claudio Martelli con Giovanni Conso al ministero della Giustizia e di Vincenzo Scotti con Nicolò Mancino al ministero dell'Interno sarebbe stato il primo segnale. A cui sarebbe seguita la nomina, come direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, di Adalberto Capriotti al posto di Nicolò Amato e di Francesco Di Maggio che sostituì il vicedirettore Edoardo Fazioli. Tutto ciò avrebbe portato, secondo l'accusa, al mancato rinnovo, il 2 novembre del ‘93, per 334 detenuti, del regime del 41 bis. Revoca che Mannino, tra l'altro, avrebbe sollecitato a Di Maggio. Per la Procura, la prova del buon esito della trattativa Stato-mafia. Prossima udienza il 3 marzo 2015 per le arringhe degli avvocati Carlo Federico Grosso e Grazia Volo e probabili dichiarazioni spontanee dello stesso Mannino che ieri non era in aula. Il 26 marzo, probabilmente, la sentenza.

Il processo principale si sta svolgendo in Corte di Assise con alla sbarra i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, il pentito Giovanni Brusca, gli ex generali del Ros, Antonio Subranni e Mario Mori, l'ex colonnello Giuseppe De Donno, l'ex senatore Pdl, Marcello Dell'Utri, l'ex ministro dell'Interno, Nicolò Mancino e Massimo Ciancimino. Tranne questi ultimi due - Mancino deve rispondere di falsa testimonianza, Ciancimino di concorso in associazione mafiosa - tutti gli altri imputati sono accusati di attentato mediante violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Sul banco degli imputati avrebbe dovuto esserci anche Bernardo Provenzano, ma la sua posizione è stata stralciata a causa delle gravi condizioni di salute.  Sul pretorio, nell'ultima udienza, è salito Sebastiano Ardita, attuale procuratore aggiunto a Messina e direttore dell'Ufficio detenuti del Dap dal 2002 al 2011. Un testimone d'eccezione perché nel 2002, su richiesta del procuratore di Firenze, Gabriele Chelazzi, cercò e trovò negli archivi del Dap tutta la documentazione relativa al 41 bis, varato con decreto legge su proposta di Martelli e Scotti dopo la strage di Capaci e applicato per la prima volta, nel luglio del ‘92, dopo l'attentato in cui perse la vita Paolo Borsellino. «Fu il ministro Martelli - ha spiegato - a firmare il provvedimento per 500 detenuti. Altri 500 furono disposti dal Dap su delega del Guardasigilli. In totale 1.000 detenuti, alla fine del ‘92, con i capi mafia trasferiti all'Asinara e a Pianosa. Il 41 bis aveva una durata di un anno e veniva prorogato dal Parlamento. Fu stabilizzato solo alla fine del 2002».
Nicolò Amato propose, il 30 luglio ‘92, l'estensione del 41 bis a tutti i detenuti condannati per mafia. Il provvedimento avrebbe riguardato 5.000 carcerati. Il ministero disse no. Amato organizzò allora il circuito carcerario di alta sicurezza. Nel marzo ‘93 propose la registrazione dei colloqui dei detenuti e la videoconferenza che il ministero accolse, con legge, solo nel ‘96. «Era un esperto - ha ricordato Ardita - Nicolò Amato, sin dai tempi del terrorismo, così come i suoi collaboratori. Ma venne sostituito da Capriotti che il 6 giugno ‘93 mandò una nota in cui proponeva di applicare il 41 bis al 10% dei detenuti; di non rinnovare, alla scadenza, 334 provvedimenti; di ridurre la durata del carcere duro da un anno a sei mesi "per dare un segnale di distensione". La nota era un'anomalia. Fatto sta che, dal 3 novembre ‘93, 334 detenuti non ebbero più il 41 bis anche se il 50% di essi vi rientrò nei mesi e negli anni successivi».