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22/06/2015 06:48:00

Castelvetrano. Parco archeologico di Selinunte: il finanziamento e la duna delle sorprese

 Che il sud campi di finanziamenti europei non è una novità. “Riqualificazione” è la parola magica che fa drizzare le antenne a sindaci, imprese, progettisti e gruppi di potere. A volte l’utilità delle opere passa in secondo piano. Ci si può ritrovare con le piazze del centro abbellite e pedonalizzate, e le vie poco distanti in malora, con marciapiedi inguardabili. Ma i soldi dell’Europa non si rifiutano mai e spesso la “bravura” di un sindaco sta nell’intercettare i finanziamenti, oltre a non farseli scappare una volta ottenuti.

Il caso del finanziamento di 4 milioni e mezzo per i lavori al parco archeologico di Selinunte è controverso. Riguarda la realizzazione di opere di riqualificazione (eccola la parola magica) con parcheggio, area a verde, impianto di luce a basso consumo energetico, spazi commerciali, area per servizi di ristorazione, oltre alla completa eliminazione della duna esterna, con la creazione della “passeggiata” in acciaio e legno lungo il perimetro del parco.

Un fondo Po Fesr 2007-2013 che ha visto l’inizio dei lavori nel giugno del 2012, bloccati però dopo una settimana per il sequestro del cantiere. Durante la rimozione della duna erano infatti emersi dei rifiuti speciali che non sarebbero stati smaltiti in discarica. 5 persone finirono indagate, tra le quali l’allora direttrice del Parco Caterina Greco e l’allora ingegnere capo del Comune Giuseppe Taddeo.

Nell’ottobre del 2013 furono tutti assolti, il cantiere fu dissequestrato e fu disposta la ripresa dei lavori.

Ma l’impresa, la Puma srl di Mazara del Vallo, non si presenta, annunciando di voler rinunciare all’appalto. Il tempo passa e la rinuncia viene formalizzata nel luglio successivo. Il comune di Castelvetrano minaccia di addebitarle le spese per il rinnovo dell’appalto e il tempo passa ancora. Un tempo prezioso in cui il finanziamento non si era ancora perso e sarebbe bastato soltanto ricominciare i lavori. Ma niente da fare, i lavori non ricominciano e si arriva al giugno del 2014, quando l’impresa chiede al Comune un milione di euro come risarcimento per i danni subiti dal fermo. Il tempo trascorre ancora: passa addirittura un anno e si arriva ad una decina di giorni fa, quando un sito on line dà la notizia della perdita del finanziamento.

 

Il sindaco Errante non ci sta a far passare il messaggio che durante la sua consiliatura si sia dovuto rinunciare ad un finanziamento così importante. E reagisce con un comunicato stampa in cui definisce la notizia “priva di qualsiasi fondamento”, perché sarebbero in corso le procedure per ottenere il decreto di “rifinanziamento”.

Un fondamento allora la notizia ce l’aveva: anche se non si dovrà dire addio all’opera, in questo momento comunque il finanziamento non c’è. E’ lo stesso primo cittadino a confermarlo: “Superata una miriade di criticità, oggi si è nelle condizioni di poter affermare che nelle prossime settimane avverrà il rifinanziamento dell’opera”.

Ci si chiede però perché l’impresa sia stata così irremovibile nel rinunciare all’appalto. Eppure la possibilità di tornare a lavorare in un cantiere così rilevante, avrebbe potuto rappresentare un innegabile vantaggio economico, una sorta di ripresa dopo il danno subìto dal fermo.

Forse la risposta, sta nel tipo di rifiuti trovati. Su questo versante, si è forse avuto un approccio semplicistico e riduttivo. Dal 2012 non si fa che scrivere (con qualche variante) che si è trattato soltanto di qualche copertone, di un cestello di lavatrice e di mezzo palo della luce. Ma l’ipotesi di reato di abbandono di rifiuti speciali riguardava però anche del materiale edilizio di risulta (sfabbricidi). Materiale rimasto dov’era, in buona parte spianato sul terreno dello stesso parco archeologico, nonostante nel 2012 il Tribunale di Marsala avesse dissequestrato l’area per permettere l’attività di bonifica e ripristino dei luoghi.

C’è da chiedersi fino a che punto l’impresa avrebbe corso il rischio di accollarsi i relativi costi di smaltimento. E soprattutto, proseguendo nell’attività di rimozione della duna, il rischio di trovare l’intera lavatrice senza il cestello, oppure la carcassa dell’autocarro senza i copertoni. Nessuno può escludere che in quello che rimane della duna ancora da rimuovere possano esserci perfino recipienti in eternit. Sarebbero costi di smaltimento non previsti che potrebbero mettere in difficoltà qualsiasi impresa.

E’ anche vero che il reato non sta nel ritrovamento dei rifiuti, ma nel loro abbandono o nel loro inappropriato riutilizzo.

Ora, non c’è dubbio che con le nuove norme, le terre di riporto non siano da considerare rifiuti, ma c’è da chiedersi se davvero mattoni, tondini di ferro, calce e pezzi d’asfalto possano essere considerati terre di riporto. Anche perché, inutile girarci attorno, la probabilità che possano essere ritrovati nella parte di duna ancora da rimuovere non è poi così trascurabile.

Intanto, il terriccio misto a materiale di risulta (o forse sarebbe meglio dire, il materiale di risulta con un po’ di terriccio), che era stato spianato nello stesso terreno del parco aumentandone anche il livello, comincia ad essere coperto dall’erba. Era accaduto più di dieci anni fa con un altro cumulo di sfabbricidi in zona Manuzza, e anche allora l’erba ha fatto scordare tutto.

A questo punto forse, sarebbe meglio prevedere degli accordi precisi con l’impresa in caso di ritrovamento di rifiuti, se si vuole evitare di ripetere gli errori del 2012.

L’erba coprirà anche tutto, però sarebbe meglio non tirare troppo la corda.


Egidio Morici