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14/02/2016 06:20:00

Il maxi processo alla mafia nel racconto di Alberto Di Pisa, ex procuratore di Marsala

 Da poco andato in pensione, Alberto Di Pisa, fino a poche settimane fa Procuratore della Repubblica a Marsala, ha tracciato un suo ricordo delle fasi che portarono allo svolgimento del maxi processo alla mafia di Palermo, del quale ricorre in questi giorni il trentennale.

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Il maxiprocesso è il nome con cui è universalmente conosciuto il più grande ed impegnativo processo celebrato a Palermo negli anni Ottanta, nei confronti degli appartenenti all’organizzazione “cosa nostra”. Esso ricevette un impulso dalla gravissima situazione criminale che dal 1976 in poi aveva trasformato la Sicilia, e Palermo in particolare, in un’autentica “mattanza”.

Le strade erano lastricate di cadaveri e vennero decapitati tutti i vertici istituzionali e politici della società italiana. Furono assassinati giornalisti (Mario Francese), appartenenti alle forze dell’ordine (Giuseppe Russo, Boris Giuliano, Emanuele Basile), magistrati con esperienza politica (Cesare Terranova), presidenti della regione (Piersanti Mattarella), procuratori della Repubblica ( Gaetano Costa), politici-segretari di partito (Michele Reina, Pio La Torre). La situazione era resa ancora più grave dall’esplodere della guerra di mafia scatenatasi con l’uccisione di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, esponenti della mafia c.d. tradizionale, assassinati dai “viddani ” corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, ormai convinti di avere preso il comando di Cosa Nostra grazie alla bestiale spietatezza dei loro killer.

Fu per reagire a questa situazione che scesero in campo i migliori investigatori di cui allora si poteva disporre; in particolare il commissario capo Ninni Cassarà, e il capitano dei CC Tito Baldo Honorati. Venne inviato in Sicilia, in risposta all’omicidio di Pio La Torre, il neo nominato prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. E fu proprio Dalla Chiesa che fece si che le indagini confluissero in un rapporto a carico di 161 mafiosi. Tale rapporto venne presentato alla Procura della Repubblica di Palermo nel luglio del 1982 ed affidato, anche su sollecitazione del Generale Dalla Chiesa, ai sostituti procuratori Alberto Di Pisa, lo scrivente, e Vincenzo Geraci. Ebbene questo rapporto costituì il nucleo originario da cui nacque il maxiprocesso alla mafia. Ben presto, nel corso delle indagini, si manifestarono alcune collaborazioni di soggetti peraltro gravitanti nelle fasce periferiche (Gennaro Totta) o basse (Stefano Calzetta, Vincenzo Sinagra) dell’organizzazione mafiosa.

Il processo transitò all’ufficio istruzione, e Rocco Chinnici, nominato a capo dell’ufficio dopo l’uccisione del designato Cesare Terranova, ne assunse la titolarità. Quando nel luglio del 1983 Rocco Chinnici venne assassinato con un attentato dinamitardo di stampo libanese (chi scrive quel giorno era di turno, intervenne sul posto), il Consigliere istruttore Antonino Caponnetto assegnò il processo a Falcone affiancandogli Paolo Borsellino. Si costituì così il nucleo fondante del pool dell’ufficio istruzione che poi si arricchì di altri giudici. Il pool della Procura era gia stato costituito con lo scrivente e Geraci.

Una svolta determinante e per certi versi storica per le indagini si ebbe con la collaborazione di Tommaso Buscetta. Una volta estradato in Italia nell’estate del 1984 venne interrogato senza soluzione di continuità per due mesi da Falcone e dai pubblici ministeri della Procura di Palermo, interrogatori che avvennero presso la Questura di Roma dove si trovava sotto custodia del capo della Criminalpol del Lazio, Gianni De Gennaro.

Non vi è dubbio che con le dichiarazioni di Buscetta l’indagine fece un notevole salto di qualitàcreando le premesse e le basi di quello che sarebbe stato il maxiprocesso. Egli, che pur da semplice “soldato” era stato molto vicino ai capi di “Cosa Nostra” si da guadagnarsi l’appellativo di “boss dei due mondi”, svelò le trame e i crimini della organizzazione mafiosa.

Buscetta teneva a precisare che la sua collaborazione non faceva di lui un traditore: traditori piuttosto erano coloro che avevano consentito la degenerazione della mafia,” sì da rendere incompatibile con i principi tradizionali di “Cosa Nostra” l’epoca in cui viviamo”. Nutriva infatti un grande rispetto ed ammirazione per Stefano Bontate che rappresentava la mafia di un tempo e l’omaggio nei confronti di quest’ultimo era tale che era arrivato a chiamare un suo figlio con lo stesso nome. Un solo rimprovero muoveva a Bontate: di avere fatto trapelare la sua intenzione di uccidere Totò Riina piuttosto che eseguirla subito senza indugio.

Le dichiarazioni di Buscetta, sottoposte ad una attenta e minuziosa attività di riscontro, consentirono l’emissione di un mandato di cattura nei confronti di trecentosessanta mafiosi. Si poteva dire che era crollato il mito invincibile dell’omertà di “Cosa Nostra” ad opera di uno dei massimi esponenti della organizzazione. Dopo Buscetta vennero numerosi altri collaboratori tra cui Salvatore Contorno, temuto killer di Stefano Bontate che prima di intraprendere la propria collaborazione ebbe però bisogno del “permesso” di Buscetta.

A conclusione delle indagini si ebbero oltre ottocento imputati alcuni dei quali di notevole livello quali i cugini Nino ed Ignazio Salvo, potenti ed intoccabili gestori delle esattorie siciliane. Costoro avevano ospitato Buscetta nel loro albergo di Santa Flavia e lo avevano invitato a venire a Palermo per invocarne l’intervento pacificatore nella guerra di mafia. Indubbiamente il successo giudiziario che seguì alle indagini fu essenzialmente merito di Falcone e della tecnica investigativa da lui attuata in ciò agevolato dal processo inquisitorio allora in vigore. Di fronte alla mole di prove raccolte, Falcone ironizzava sul fatto che il maxiprocesso si era ridotto ormai ad un processo di Pretura.

Dopo le rivelazioni di Contorno, il processo fu pronto per la requisitoria che venne depositata nel luglio del 1985 a firma del Procuratore della Repubblica Pajno e dei sostituti Di Pisa, Geraci, Signorino, Ayala e Sciacchitano: gli ultimi tre nel frattempo entrati a fare parte del pool. In occasione di tale deposito venne a Palermo il ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro per manifestare la sua vicinanza ai magistrati palermitani con i quali si intrattenne a villa Igea, come testimoniato da una foto che immortalò l’avvenimento.

L’8 novembre1985 intervenne l’ordinanza di rinvio a giudizio. Mentre la Procura aveva richiesto il rinvio a giudizio di 351 imputati il giudice istruttore ne rinviò a giudizio 476. L’enorme numero degli imputati pose dei problemi logistici dato che non vi erano aule idonee per contenerli tutti. Falcone fece pressioni perché si costruisse ex novo un’aula spiegando che il processo “doveva” essere celebrato a Palermo per riaffermare l’autorità dello Stato che la mafia aveva sfidato. In dieci mesi, grazie al sostegno del Ministro della giustizia Mino Martinazzoli, venne realizzata l’ Aula Bunker che fu completata il 31dicembre 1985.

Due mesi dopo, il 10 febbraio 1986 ebbe finalmente inizio il dibattimento. La Corte d’assise fu composta dal Presidente Alfonso Giordano e dal giudice a latere Pietro Grasso. Pubblici ministeri erano Domenico Signorino e Giuseppe Ayala. Il processo presentò subito,a causa della sua complessità numerosi problemi dovuti soprattutto alle numerose eccezioni sollevate dagli avvocati, quale ad esempio quella di procedere alla lettura di tutti gli atti come previsto dal codice di procedura penale allora vigente. Si trattava di milioni di carte la cui lettura avrebbe richiesto anni con la conseguenza della scarcerazione degli imputati.

Il Parlamento peraltro intervenne tempestivamente e su iniziativa degli onorevoli Nicola Mancino e Luciano Violante vennero emanate due leggi con le quali si allungavano i termini di custodia cautelare e si introduceva l’art. 466bis del codice di procedura penale con il quale si sostituiva la lettura degli atti con la semplice loro “ indicazione”. Se si fosse verificata la scarcerazione degli imputati sarebbe certamente crollata la credibilità dello Stato.

Il 16 dicembre 1987, dopo 349 udienze, il giudizio si concluse con la condanna di 360 imputati, diciannove dei quali all’ergastolo. Tra questi i capi di Cosa Nostra: Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Ignazio Salvo. Nino Salvo, invece morì nel corso del dibattimento. Il giudizio di appello, che si concluse il 12 novembre 1990, ridusse a 218 le condanne e a 12 gli ergastoli inflitti in primo grado.

In Cassazione, il collegio presieduto dal giudice Arnaldo Valente, con la sentenza del 20 gennaio 1992, avallò l’impostazione complessiva del processo specie nella parte relativa alla responsabilità degli appartenenti alla “cupola” mafiosa per gli omicidi” strategici” della Organizzazione. La Corte annullò anche le assoluzioni della sentenza della Corte di Appello. Fu un trionfo il cui merito era essenzialmente di Giovanni Falcone che con indagini approfondite e prolungate aveva costruito un processo di notevole complessità e saldo sotto il profilo probatorio. La mafia lo sapeva e non gliel’avrebbe perdonato così come non lo perdonò ai politici che ritenne responsabili delle condanne subite.

Alberto Di Pisa 
(tratto da siciliainformazioni.com)