«Zucchero non guasta bevanda», rideva il sindaco Nino Contino. Sessantacinque dipendenti comunali per 950 abitanti, uno ogni 14 anime, erano troppi? Ma no: «Di più ne vorrei!» E ne aggiunse ancora. Risultato: da tre mesi il municipio di Comitini, il paese-metafora della Sicilia schiava delle clientele, non paga gli stipendi. E i consiglieri comunali (per metà agenti di custodia!) sono in guerra gli uni contro gli altri. Non è un paese come tanti, Comitini, sulla strada da Agrigento a Palermo. È il paese delle miniere di zolfo, il paese dove sventolò il primo tricolore risorgimentale girgentino, il paese dove vissero un po’ della loro giovinezza due premi Nobel, cioè Salvatore Quasimodo e Luigi Pirandello, che qui raccolse racconti straordinari dai quali trasse alcune novelle celeberrime. Su tutte «Ciàula scopre la Luna» e «Il vitalizio» ispirato a un contadino, Antonino Cirino detto «u Saiaru» che, nato alla fine del ‘700, passò tutto l’800 e morì solo nel 1901 dopo aver quasi dissanguato don Pietro Di Benedetto che gli aveva comprato un terreno nella valle dei Templi in cambio d’un vitalizio.
Fatto sta che, forse per devozione all’autore de «Il fu Mattia Pascal», Comitini non ha mai smesso di essere pirandelliana. Basti dire che dopo essere stato fatto conoscere dal Corriere e poi da Michele Santoro per il record planetario di dipendenti comunali (come se Milano ne avesse 93mila, Roma 186mila o l’Italia quattro milioni e 285mila: più gli altri «pubblici») il borgo finì cinque anni fa in prima pagina sul New York Times come simbolo di «una cattiva gestione delle risorse pubbliche che sta strangolando l’Italia e le altre economie in difficoltà in tutta Europa». Rachel Donadio, l’inviata newyorkese, non credeva ai suoi occhi. Due dei nove vigili delegati a gestire un traffico inesistente se ne stavano seduti al bar: «Vedi, stiamo seduti qui e aiutiamo l’economia locale». In chiesa stavano celebrando un matrimonio e un po’ di macchine erano parcheggiate in sosta vietata. «Perché non li multate?» chiese la giornalista. ««Evitiamo. Qui ci conosciamo un po’ tutti, è una città così piccola...». Un’altra giunta, dal Cile al Kamcatka, avrebbe dato le dimissioni. Nino Contino, il sindaco di destra che aveva accumulato quella massa di impiegati (14) e precari in attesa di essere stabilizzati (51) spiegò all’«Arena» di Massimo Giletti che no, non era imbarazzato affatto: «So bene che 65 lavoratori comunali in una città di poco meno di mille abitanti sono molti. Ma se non gli avessimo offerto un lavoro, queste persone sarebbero emigrate, magari in America». E i soldi per mantenere questi esuberi? Spallucce: «La città non paga: sono lo Stato e la Regione che lo fanno. I dipendenti sono pagati solo per il 10% dal Comune».
L’anno dopo, mentre Mario Monti faceva stringere la cinghia a tutti gli italiani, ne inventò un’altra. E anziché sistemare i tombini o togliere le erbacce, spese 35 mila euro recuperati in Regione più un’altra decina di migliaia delle casse municipali per mandare in crociera una trentina di anziani e una quindicina di ragazzi di III media: «È un modo per festeggiare il loro primo traguardo e non potevamo che farlo approfittando di questa opportunità economica legata alla crociera». All’arrivo delle nuove elezioni, obbligato dalle regole sul limite dei mandati, restò fuori. Ma fece vincere i suoi: otto consiglieri contro quattro. Con la più alta quota planetaria di dipendenti pubblici. Merito di una leggina che consente a ogni dipendente dello Stato eletto a una qualsiasi carica pubblica d’essere trasferito dal luogo in cui sta (Imperia o Pordenone, Sassari o Cuneo) a quello dove deve svolgere il mandato. Risultato: su dodici membri del consiglio comunale attuale ci sono a Comitini un poliziotto, un sottufficiale dell’esercito e sei agenti di custodia. Sei! Imposto come sindaco, però, Felice Raneri, un ex ferroviere che (caso più unico che raro) aveva lasciato il posto fisso per metter su una aziendina di prodotti edili, si è via via sganciato: «I conti erano catastrofici. Tantissimi debiti fuori bilancio. Una massa di fornitori non pagati. Cinque dirigenti a fronte di nove dipendenti semplici (ho dovuto declassare anche mia moglie Concetta) più cinquantatré precari in attesa di assunzione definitiva dopo anni di lavoro e promesse. Per un totale di 67. Due in più rispetto a quando ci avevano sbattuti sulNew York Times come esempio di cattiva amministrazione. Non so se mi spiego».
Non bastasse, un diluvio di «fatture senza l’impegno di spesa. Più quelle di tre avvocati palermitani, anche di grido, assunti dal mio predecessore (che non si rassegna a mollare l’osso) per vincere in tribunale le penultime elezioni comunali dato che avevo preso un solo voto (uno solo e contestatissimo) in più del suo avversario. Per capirci: per restare sindaco lui prese degli avvocati pagati da tutti i cittadini». Non bastasse ancora, mesi fa è scoppiato un piccolo inferno: «C’erano dei raccomandati imboscati in questo o quell’ufficio a non far niente. Essendo stati presi quasi tutti come addetti al verde pubblico, ho cercato di mandarne una dozzina per le strade. Non l’avessi mai fatto! Mi hanno denunciato perché non era mai stata fatta loro la visita medica. Vero, ma non per colpa mia: nessuno ci aveva mai pensato». A farla corta, a un certo punto Raneri, sempre più nel mirino della destra che l’aveva eletto, ha scelto di allearsi con la minoranza di centro-sinistra: «Adesso siamo cinque contro cinque, più due “fluttuanti” che un giorno stanno con noi e un giorno con gli altri. Ma è inutile parlare di destra e sinistra. Qui siamo tutti cugini, parenti, cognati… E ormai è una guerra tutti contro tutti». Impossibile approvare il bilancio: «Fanno mancare sempre il numero legale». Niente bilancio, niente soldi. Niente soldi, niente stipendi. E sempre più Comitini si consolida come il paese-metafora di un Sud che si trascina i problemi, le furbizie e le tragedie di sempre…
Gian Antonio Stella
Il Corriere della Sera, 23 Febbraio 2016