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06/10/2016 12:13:00

Il diritto (inalienabile) a una morte dignitosa

Mi ha piacevolmente sorpreso scoprire che il film Me before you, diretto dalla regista britannica Thea Sharrock e tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice inglese Jojo Moyes, sia stata la pellicola più vista in settembre nelle sale cinematografiche italiane. Dico piacevolmente per il fatto che il film abborda in maniera estremamente lucida ed equilibrata la realtà (non semplicemente “il tema”) del diritto ad una morte dignitosa quando già la vita ha cessato di esserlo. 

In un Paese come l’Italia, che ha a lungo subito il ricatto morale messo in atto dall’ostracismo religioso nei confronti delle questioni eticamente sensibili, si tratta di un segnale significativo, che fa sperare in un atteso – seppur tardivo – atto di insubordinazione ai diktat vaticani. Chissà, sia pur lentamente, anche nel nostro Paese sta finalmente affiorando la consapevolezza che l’autodeterminazione della coscienza rappresenti un diritto inviolabile: non ancora nella classe politica, in buona misura succube del moralismo d’Oltretevere, ma – ed è ciò che in definitiva più conta – nelle persone, stanche di sedere tra i banchi dei catecumeni ed ormai inclini a svolgere una riflessione etica che non accetta intromissioni ed ancor meno restrizioni o divieti. 

Confesso che mi ha sempre stupito la posizione cattolica ufficiale in merito alla questione dell’eutanasia: sono difatti persuaso del fatto che, se si considera la vita come un dono, dovrebbe discenderne la piena disponibilità dello stesso. Se ricevo qualcosa, dovrei poterne disporre: altrimenti, mi domando, che dono è? Non credo che abbia senso chiamarlo “dono” se la sua disponibilità riposa nelle mani del presunto donante: meglio, in tal caso, chiamarlo “prestito”. 

L’eteronomia, in etica, ha fatto il suo tempo: le donne e gli uomini sono ormai stanchi di precetti e di precettori e stanno comprendendo che le scelte etiche vanno compiute “in situazione” e che le situazioni sono molteplici, controverse, e comunque sempre eccedenti rispetto al metro di una improponibile universalità. Se vogliamo crescere in umanità, dobbiamo crescere in ragionevolezza ed in emancipazione etica ed intellettiva. La vita è un bene inalienabile, al quale soltanto il singolo individuo ha diritto di rinunciare nel momento in cui non ritenga che essa soddisfi le condizioni necessarie perché sia degna di essere vissuta. Anche perché un altro, non potendo vivere la mia vita, non può stabilire al posto mio che cosa significhi dignità. In questo tema così personale ed insondabile, l’altro, chiunque egli sia, non può che venire dopo. Me before you. 

Alessandro Esposito, pastore valdese in Argentina - (3 ottobre 2016)