Nel maggio del 2016, ho avuto la fortuna di partecipare ad un incontro previsto a Palermo durante il primo master universitario italiano sui temi dell'anticorruzione e dell'antimafia organizzato dal dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, in cui Salvo Palazzolo di Repubblica, che era uno dei docenti, parlò del “Caso Scarantino”. Il falso pentito assolto pochi giorni fa, nel processo di revisione della corte d’Appello di Caltanissetta. Una sentenza arrivata in tempo per il venticinquesimo della strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque poliziotti della sua scorta.
Pochi giorni dopo la strage, il Sisde scrive a Roma dicendo che la Squadra Mobile sta facendo delle attività e che si preannunciano novità per gli esecutori della strage Borsellino.
Due mesi dopo ecco spuntare Vincenzo Scarantino, che fa i nomi di alcune persone. Grande conferenza stampa col capo della Mobile Arnaldo La Barbera che annuncia trionfante che lo Stato ha trovato i colpevoli. Poi comincia il processo, gli arresti e si arriva al 1995.
Scarantino però è uno spacciatore del quartiere Guadagna di Palermo, vicino Brancaccio. Chi lo conosce non può che avere degli enormi dubbi sul fatto che la mafia avesse potuto affidare ad un balordo di poco conto un ruolo cardine in una strage come quella di via D’Amelio. Bisognerà però aspettare il 2008, per saperlo dal pentito Gaspare Spatuzza.
Ma tra coloro che nel 1995 hanno un’idea più precisa di chi fosse in realtà Scarantino, c’è un giornalista: Angelo Mangano.
Ecco cosa ha raccontato in occasione del master del 2016 a Palermo:
Era il 25 luglio del ’95. Lavoravo per il gruppo Mediaset. Quella mattina arrivai in redazione sul tardi. C’era un grande tamtam tra colleghi e avvocati. Negli ambienti giudiziari si diceva che Scarantino avesse ritrattato tutto. Si diceva che dal luogo protetto in cui si trovava, avesse chiamato casa per dire che si era inventato tutto.
Io sono nato e cresciuto in via Oreto, vicino alla Guadagna. Da ragazzo stavo qui, frequentavo un bar. Conoscevo Scarantino e sapevo che era un contrabbandiere di sigarette ed uno spacciatore.
Quando lo arrestarono e fecero quella famosa conferenza stampa in cui si presentava il killer di Borsellino, ebbi dei dubbi. Però, come fai a non fidarti della Squadra Mobile? Ad ogni modo chiamo la procura di Caltanissetta e chiedo del procuratore Tinebra, che però si fa negare al telefono.
Poi chiamo la squadra mobile, perché stranamente Vincenzo Scarantino non era gestito dal Servizio Centrale di Protezione, ma direttamente dal gruppo Falcone-Borsellino, cioè dagli uomini di Arnaldo La Barbera. Anche lì, buco nell’acqua: il dottore La Barbera è impegnato.
Intorno a mezzogiorno viene fuori un’agenzia: la procura di Caltanissetta smentisce che Scarantino si sia pentito di essersi pentito. Mezz’ora dopo, smentisce anche il Ministero dell’Interno.
Questa storia però mi suonava male. E allora chiamo il mio direttore, Paolo Liguori: “Paolo, se mi dai una troupe, io vado a casa della famiglia Scarantino”.
Una volta arrivato a casa sua, la madre mi dice che lui ha telefonato e che lei aveva registrato. La registrazione era però inservibile, non si capiva nulla. Era un vecchio registratore a nastro e probabilmente aveva poggiato il microfono sulla cornetta.
Le dico allora che se dovesse richiamare, mi contatti al mio numero di cellulare.
Dopo mezzora circa, ero appena tornato nella sede Rai di via Ugo La Malfa, Scarantino chiama. All’inizio non si capisce granché, lui parla in dialetto stretto e sembra confuso. Ma poi riesce a dire chiaramente le cose http://video.repubblica.it/edizione/palermo/l-intervista-ritrovata-del-falso-pentito-scarantino/140667/139202.
Lui dice che a Pianosa gli hanno fatto urinare sangue. Gli chiedo: “Mi scusi Scarantino, ma chi? Chi l’ha torturato?”. E lui mi risponde: “Arnaldo La Barbera”.
Dico: Arnaldo la Barbera chi? Il Questore? Il capo del gruppo Falcone Borsellino?
E lui mi dice: “Sì, lui”.
Io rimango pietrificato. Vado avanti con la registrazione e intanto il mio cellulare comincia a squillare: 091-210111. E’ il centralino della questura di Palermo.
Io sono in sala registrazione, stacco il telefono e subito dopo mi chiama il centralinista della redazione: “C’è la questura che ha chiesto di te. Il dottore La Barbera ti vuole parlare”.
L’intervista non è ancora andata in onda. Della sua esistenza siamo a conoscenza soltanto io ed il signor Scarantino.
Dico: “Puoi riferire che non posso, perché sono in sala registrazione”.
Mi fermo, chiamo il mio direttore, Paolo Liguori e dico: “Guarda, noi abbiamo in mano questa storia”.
Lui mi fa: “Tu che ne pensi?”
“Io penso che questo ci sta raccontando la verità. Io un’idea di chi sia Scarantino ce l’ho. E questo qui non è uno che fa le stragi di mafia”.
Liguori mi dice: “Guarda Angelo, facciamo una cosa: mandiamola in onda”.
Ricordiamoci che è il 1995. Siamo nel pieno delle indagini. Arnaldo La Barbera era stato mandato a Palermo dal Ministero dell’Interno perché è un superpoliziotto, l’uomo che deve vincere la mafia.
Quel giorno mandiamo in onda il primo servizio. Ma il mio cellulare continua a squillare. Scelgo al momento di non rispondere e quando rientro a casa trovo un messaggio nella mia segreteria telefonica al fisso, da parte di una delle segretarie del gruppo di indagine Falcone-Borsellino: “C’è il dottore La Barbera che ti deve parlare urgentemente”.
Inoltre il portiere mi dice: “Guardi, son venuti a cercarla degli strani poliziotti”. Dico: “Come strani? In che senso?”. “Avevano un modo di fare strano”, mi risponde.
Scelgo di non chiamare la questura e il giorno dopo rifaccio un altro pezzo con l’altra parte dell’intervista che mi rimane: la storia delle torture a Pianosa, la penicillina… In buona sostanza, in carcere gli fanno credere di avere l’aids. Per cui gli dicono “Noi ti curiamo se tu ci racconti”, oppure gli dicono: “Guarda che tua moglie – che era una bella signora – a Palermo in questo momento sta con tizio, sei solo…”. Insomma gli raccontano un sacco di follie. Gli dicono: Ti diamo 200 milioni di lire. Se fai questi nomi come autori delle stragi, potrai farti una vita da un’altra parte”.
Faccio il pezzo per l’edizione di mezza mattina, mentre dalla questura continuano a cercarmi. Chiamo il mio capo Francesco La Licata, uno da cui ho imparato a fare questo mestiere (oggi è inviato de La Stampa): “Senti, mi stanno cercando continuamente dalla questura per questa storia di Scarantino. Che faccio?”
Lui mi risponde: “Non andare. Altrimenti fai la fine di Big Jim”.
Chi è Big Jim?
Big Jim è uno che è stato massacrato di botte in questura nell’agosto del 1985. Un pescatore di Porticello sospettato di avere partecipato all’uccisione del commissario Beppe Montana. Lo avevano chiamato in questura. Si era presentato e non era più uscito.
Si chiamava Salvatore Marino.
Per cui, dicevo, La Licata mi dice di non andare e anzi, di sparire per un po’. Io seguo il consiglio e mi trasferisco in una casa in affitto al mare. Intanto continuo a seguire quello che succede.
Qualche giorno dopo, l’avvocato Lucia Falzone (alla quale la procura di Caltanissetta aveva dato la “gestione” di tutti i pentiti che passano per quella procura) dice all’Ansa: “Ma perché Mangano ha fatto quest’intervista?”, giocando anche sul mio cognome, Mangano… lo stalliere… facendomi passare per una sorta di addetto stampa di cosa nostra.
Cosa era successo in realtà?
Forse, è un’ipotesi, La Barbera aveva chiamato Tinebra, che aveva fatto partire la macchina del fango. Cercavano di sputtanarmi, perché la cosa era troppo grossa. Dovevano fermarmi in qualche modo, intanto cercando di screditarmi e poi facendo muro su questa falla.
Mentre io ero sparito, i poliziotti del gruppo Falcone Borsellino arrivano nella sede Mediaset di Palermo, senza che nessuno se lo aspetti, vanno in sala montaggio, prendono la registrazione (che noi non abbiamo mai mandato in onda) dove Scarantino dice “A farmi urinare sangue è stato Arnaldo la Barbera del gruppo Falcone Borsellino” e se la portano via.
Dopodiché la procura di Caltanissetta invia all’ufficio legale mediaset di Milano la disposizione di cancellare quell’intervista dagli archivi e dai server. Un ufficio legale, davanti ad una procura della Repubblica, lo fa.
Per fortuna però c’è un tecnico disubbidiente. Un siciliano che lavora là. Lui ne fa una copia e la conserva in una sorta di hard disc non on line.
Sapevo di avere i telefoni sotto controllo, sia quelli di lavoro che a casa. Vado nella stanza di un collega Mediaset e gli chiedo se posso usare il suo telefono per chiamare l’ospedale (mia moglie era ricoverata) e sapere un risultato relativo ad una sua visita.
Lui mi dice: “No. Chissà chi chiami…”. Lì ho capito che la macchina del fango stava cominciando a funzionare.
Insomma, non avevamo ancora capito che Arnaldo La Barbera era al libro paga dei servizi segreti del Sisde. Non avevamo capito che cercavano un colpevole a tutti costi, oppure dovevano depistare tutto su un’altra storia.
Gaspare Spatuzza racconta che quando portò la macchina in quel garage per imbottirla di tritolo, c’era un cinquantenne che non appartiene a Cosa Nostra.
Io quella mattina non credevo di fare chissà quale colpo giornalistico. Ho fatto semplicemente il cronista, il mio mestiere.
La macchina del fango poi viene fermata in qualche modo da “Fatti e misfatti” una trasmissione di Liguori. Lì io ho una sponda strana che si chiama Peppino Sottile, uno che ha fatto per anni il vicedirettore al Giornale di Sicilia e conosce le dinamiche di Palermo. Lui capisce che c’è questa manovra contro di me e dice al direttore: “Guarda, cerchiamo di fare raccontare a Mangano com’è andata. Ed in quella trasmissione racconto le cose che sto raccontando a voi, magari con meno dettagli.
L’intervista a Scarantino che dice “Ho raccontato bugie” è andata in onda. Mi sarei aspettato la chiamata di una procura della Repubblica, di un ufficio di polizia giudiziaria, soprattutto dopo le verità raccontate da Spatuzza. Insomma, si erano persi 18 anni di indagini. Ma niente, non chiamava nessuno. Intanto mi leggo il libro di Salvo Palazzolo, “I pezzi mancanti”, e gli dico che appunto c’è un altro pezzo mancante. Lui mi dice “Facciamo un pezzo su Repubblica.
Il collega con cui lui firma il pezzo, quando mi chiama per farsi raccontare questa storia, mi dice “Angelo, scusa. Non abbiamo capito”. Insomma, le grandi firme dell’antimafia non avevano capito.
La storia di questo scoop soffocato va su Repubblica e qualche giorno dopo mi chiama la DIA di Caltanissetta.
Vengo sentito il 3 ottobre del 2013, il giorno della strage di Lampedusa, e racconto a loro tutta la storia. Ma dopo un po’ mi accorgo che la mia deposizione non è agli atti di nessun processo. Mi chiedo a che cosa è servita? O a chi è servita? Non lo so. Non ho capito.
Ecco, a chi è così folle di voler fare davvero questo mestiere di giornalista, io dico di verificare sempre le notizie, perché dietro ad una verità falsa e ufficiale ci potrebbe essere una strage di mafia.
Egidio Morici