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17/05/2018 06:00:00

Verso 38° Parallelo. Le terre di confine e le storie di frontiera di Battiston e Giordana

 di Marco Marino

La seconda edizione del festival «38° Parallelo – Tra libri e cantine» riparte a Marsala dal 31 maggio al 3 giugno.

Sulle pagine di Tp24, per iniziare a stimolare il dibattito sul tema della rassegna - quest'anno sarà il binomio Identità-Confini -,  oggi iniziano delle conversazioni preliminari con gli autori che si susseguiranno fra le cantine e i luoghi istituzionali della città.

Si parte con due attenti lettori degli scenari politici internazionali: Emanuele Giordana, cofondatore di Lettera22 e direttore editoriale del sito atlanteguerre.it, e Giuliano Battiston, saggista e giornalista per L'Espresso, gli asini e diverse altre testate.

Alle Cantine Fina, domenica 3 giugno alle ore 17.30, presenteranno Sconfinate. Terre di confine e storie di frontiera (Rosenberg & Sellier), una raccolta di saggi sulla natura geopolitica dei confini curata dallo stesso Giordana.

In un tempo, il nostro tempo, in cui ad essere in crisi non è più il singolo stato ma l'intero sistema politico occidentale, vittima - a dispetto di qualsiasi tipo di globalizzazione - dei populismi che inneggiano al «first, first!»: cosa significa raccontare il mondo che abbiamo attorno, quando tutti sembrano volersene dimenticare?

Giuliano Battiston: Il racconto del mondo, basato sull’esperienza diretta, intima e prolungata in un territorio specifico oggi è più necessario che mai. Rimane lo strumento più completo per capire società e culture lontane e vicine, più o meno conosciute, per riconoscerne diversità e somiglianze, così come per accettare i nostri limiti, la parzialità della nostra visione. I populismi, il ripiegamento identitario, l’autarchia sono reazioni alla crescente esposizione all’altro. Una forma sbagliata di difesa, prima ancora che un attacco. Si basano su un inganno, sono propagandate da quelli che la filosofa ungherese Agnes Heller definisce come “bonapartisti”: uomini forti (o presunti tali) a cui si appella il popolo nei momenti di difficoltà, che promettono scorciatoie e forniscono capri espiatori. Le sirene dei bonapartisti sono seducenti, ma vanno respinte. Eppure la strada opposta non è facile.  Nella sua trilogia dedicata all’homo faber (di cui sta per uscire l’ultimo titolo, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli) il sociologo Richard Sennett ci ricorda che stare con gli altri, con i diversi da sé, è una vera e propria abilità, un’arte e una pratica. Che va imparata, esercitata, giorno dopo giorno. Il racconto del mondo, in particolare il reportage, è un altro modo per esercitare la stessa arte, per mettere meglio a fuoco il rapporto tra noi e “gli altri”. Kapuscinski, reporter polacco e forse il più importante rappresentante del reportage narrativo della seconda metà del secolo scorso, ripeteva spesso che il reportage è un “genere collettivo”: anche se l’estensore finale è uno solo, è costruito grazie alle voci degli altri, senza i quali non ci sarebbe. Il racconto del mondo, il reportage rimarrà vitale a dispetto dei populisti proprio perché ci ricorda che non c’è io, senza l’altro. 

Emanuele Giordana: Raccontare è naturalmente anche un'arte: c'è chi già ce l'ha nel sangue come certi contadini che, nelle notti brumose della Val Padana dove sono nato, facevano addormentare i bambini nelle stalle raccontando favole o storie vere rielaborate. E dunque il racconto, da allora, da prima di allora, in futuro, è una delle grandi chiavi di lettura del mondo che ci accompagna. Un giornalista, se già non ce l'ha nel DNA, la deve imparare l'arte di raccontare. E quell'arte si impara solo in mezzo alla gente, nelle strade polverose, nelle metropoli luccicanti. Parte dall'osservazione delle cose e si affina immaginando il lettore o lo spettatore. Il mondo di oggi sperimenta sempre nuove chiavi narrative e dunque anche muovi modi di raccontare. Una piccola sfida. Perché qualsiasi storia ha bisogno di essere narrata in modo da non risultare noiosa. Oggi forse è più necessario di ieri trovare nuovi modi di raccontare per risvegliare curiosità e fantasia.

 

Confine e frontiera: in passato venivano debitamente distinti, ma oggi? E se non esiste davvero più differenza fra confine e frontiera, è lecito pensare che il problema più incombente sia di natura identitaria prima che politica?

GB: La politica è costruita intorno a identità fittizie, spacciate per reali. Riguarda ciò che crediamo di essere e che vorremmo essere. Politica e identità vanno a braccetto, dunque. Diventano pericolose quando l’abbraccio diventa troppo stretto, asfissiante, quando la politica si riduce a identità e a un’identità intesa come esclusiva, eterna e immutabile, piuttosto che aperta, malleabile, revocabile, mutabile nel tempo. Mi sembra utile, ancora una volta, Richard Sennett. Nel suo ultimo libro ragiona sugli strumenti con cui trasformare le frontiere chiuse in confini aperti, anche se all’interno delle città, dove le frontiere possono essere invalicabili tanto quanto quelle tra gli Stati-nazione. Sennett ricava la distinzione da biologi come Stephen Gould che studiano la differenza nelle ecologie naturali tra una parete cellulare, che trattiene internamente, e una membrana, allo stesso tempo porosa e resistente, aperta. Suggerisce di trasformare le città chiuse in città aperte. È la stessa distanza che corre tra la frontiera, che rappresenta un limite dove le cose finiscono, e il confine che invece – spiega Sennett sulla scorta dei biologi – è un’area in cui gli organismi interagiscono di più. La politica di cui abbiamo bisogno è una politica che promuova porosità, aperture, interazioni e che rinunci alle identità fissate in una frontiera.

 

EM: E un mondo senza confini, di città aperte, di luoghi di convivenza continua a far parte di un sogno che ogni giorno sembra strappato dalla follia identitaria, dall'identificazione con un confine che diventa una gabbia, sia per chi ci vive dentro sia per chi cerca di forzarlo... Io sogno come Sennet le città aperte e i luoghi dell'accoglienza  ma so anche che la strada resterà a lungo in salita. Intanto abbiamo bisogno di nuove definizioni ma anche di capire cosa sono adesso e cosa sono stati nella storia i confini che, a volte, hanno anche una funzione necessaria. Un confine può essere il segno della nostra indipendenza come la forma in cui si esprime l'autorità di un despota. Può essere il piacevole passaggio da un mondo a un altro e può essere l'inferno del muro che separa ebrei da musulmani. Nella raccolta Sconfinate abbiamo provato a mettere alcuni confini nella loro cornice storica. ne vengono fuori molte storie diverse perché ogni confine ha una "personalità": non solo giuridica ma culturale, umana, geografica...

 

Se vedessimo tutto dalla prospettiva italiana? Come vive il nostro paese il suo rapporto coi confini e con le frontiere? E inoltre vorrei chiedervi: com'è vista l'Italia al di là dei suoi confini e delle sue frontiere?

 

GB: Ogni Stato-nazione, per diventare tale, perimetra culturalmente e geograficamente il proprio territorio. Ma se perde di vista la natura artificiale e storica di quest’operazione, se dimentica che ogni nazione è una “comunità immaginata”, come insegna il filosofo della politica Benedict Anderson, è spacciata. Perché ciò che sta dentro, un tempo era fuori. Perché i confini tra dentro e fuori sono sempre in mutamento. E perché pretendere di escludere il fuori per sempre è impossibile e controproducente. Mi pare che l’Italia, e molti politici, abbiano dimenticato quanto recente sia la nascita dello Stato-nazione Italia, quanto artificiale e precaria sia la sua cultura condivisa (sempre che ce ne sia una). Per rinfrescare loro la memoria servirebbe un bagno rinfrescante nel Mediterraneo, il mare intorno al quale si è costruita la cultura mediterranea e dove oggi vengono lasciati morire i migranti che “bruciano le frontiere” chiuse alla ricerca di confini aperti.

 

EG: Da ragazzo, quando dall'estero  pensavo al confine della mia terra, mi veniva in mente subito il caffè e il Campari soda. Provavo quel gusto vagamente proustiano di voler riassaporare le cose di casa, di casa mia, finalmente, dopo un lungo viaggio. Era un'affermazione di identità? No, era il piacere della diversità unito alla capacità di coniugare le esperienze che facciamo fuori dal nostro nido con la complessità del mondo. Oggi, da adulto smaliziato, passo i confini facendo attenzione al gabbiotto della dogana, alle movenze del finanziere, alla rigida burocrazia che divide il mondo e lo rende più buio. Non mi piace e così ho iniziato a odiare i confini. Cosa ne pensano degli italiani? Cosa pensano del nostro confine, in parte montagnoso e innevato in parte liquido e umido? Non lo so. C'è una gran confusione e un agitarsi di spettri come se dovessimo fare la guardia al cancello della proprietà al pari di molossi addestrati. Penso che passerà se passerà la crisi, la mancanza di prospettive che ci attanaglia. Torneremo a sognare. E quando si sogna ci preme il desiderio di passare oltre il cancello di casa in cerca di nuove idee, cosa di cui abbiamo un gran bisogno. Progetti per questo Paese che vive solo di memoria. Le idee però stanno fuori dal cancello. E le sbarre non consentono di vederle.