La strage di Via D'Amelio/1: viaggio nel più grande depistaggio della storia d'Italia
Uno dei più grandi depistaggi della storia italiana. La Strage di via D’Amelio si inserisce a pieno titolo tra i clamorosi misteri italiani ancora senza verità, che hanno accompagnato l’evolversi della prima e della seconda Repubblica, da Portella della Ginestra alla tragedia di Ustica, da piazza Fontana all’eccidio della stazione di Bologna.
Tp24 presenta da oggi uno speciale in quattro parti, dove vengono affrontati i principali temi scaturiti dalle motivazioni della sentenza del processo Borsellino Quater.
Parleremo della sparizione dell’agenda rossa, del ruolo del falso pentito Scarantino, dei poliziotti infedeli, delle anomalie investigative e dei servizi segreti.
Un depistaggio raffinato, molto lontano dall’esigenza di trovare subito un colpevole per placare l’opinione pubblica. Un’opera di “suggeritori” di Stato, a conoscenza di particolari inquietanti.
La redazione di Tp24.it
Il depistaggio di via d’Amelio. Le anomalie
Uno dei primi poliziotti ad arrivare nell’inferno di via D’Amelio il 19 luglio 1992, dopo circa dieci minuti dall’esplosione, fu Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Appena arrivato, vide un ragazzo seduto sul marciapiede, in stato di shock con la testa fra le mani. Era Antonio Vullo, l’unico della scorta rimasto vivo.
Maggi, pensando di trovare altre persone ancora in vita, si fece strada fra i rottami e il fumo denso, ma trovò soltanto corpi carbonizzati e dilaniati. Un campo di battaglia, dove occorreva stare attenti a non calpestare resti umani, sparsi ovunque. Una mano ed un piede furono recuperati ad oltre cento metri di distanza dall’esplosione. Brandelli carbonizzati ancora attaccati alle pareti del palazzo dove abitava la madre del giudice Borsellino. Un braccio su una finestra al primo piano di un altro edificio.
Ma nel mezzo dell’apocalisse, c’erano quattro o cinque uomini, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage. “Uscii da... da 'sta nebbia – ha raccontato Maggi - che... e subito vedevo che arrivavano tutti 'sti... tutti chissi giacca e cravatta tutti cu' 'u stesso abito, una cosa meravigliosa”, “proprio senza una goccia di sudore”. “Gente di Roma”, appartenente ai servizi segreti, che era stata notata negli uffici del capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera, anche in un’altra occasione: la strage di Capaci.
Circostanza questa, che Maggi ha riferito vent’anni dopo, nonostante fosse stato sentito più volte in più processi.
Altre ombre riguardano l’autobomba. Che si trattasse di una Fiat 126 lo si è potuto stabilire soltanto il 20 luglio, quando fu trovato un blocco motore intorno alle 13,30, attribuito appunto ad una Fiat 126. Già nel pomeriggio del 19 luglio, però, fonti della polizia “ipotizzavano l’utilizzo, come autobomba, proprio di una Fiat di piccole dimensioni e, in particolare, «una 600, una Panda, una 126»”.
Come facevano a saperlo?
“Non è spiegabile – scrivono i giudici - soltanto con l’efficienza e la solerzia profusa dagli inquirenti nel cercare di far immediatamente luce, con il massimo sforzo investigativo praticabile, su di un fatto gravissimo, che cagionava anche la scomparsa prematura dei cinque appartenenti alla Polizia di Stato, bensì necessariamente ipotizzando un apporto di tipo confidenziale da parte di taluno che (evidentemente) era ben informato sulle concrete modalità esecutive dell’attentato”.
Ma c’è di più. C’è uno strano sopralluogo in una carrozzeria da parte della Polizia Scientifica di Palermo, su richiesta della Squadra Mobile di La Barbera.
Alle ore 11 del 20 luglio 1992 i poliziotti vanno nell’autofficina di Giuseppe Orofino che, prima delle 9, aveva denunciato il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente. Si trattava delle targhe che sono state applicate all’altra Fiat 126, poi fatta esplodere in via D’Amelio.
Eppure al momento del sopralluogo, non si sapeva ancora che l’autobomba fosse una Fiat 126. Si saprà almeno due ore più tardi, come si diceva, in seguito al ritrovamento del blocco motore, intorno alle 13,30.
La questione delle targhe è ancora più fosca.
Sì, perché mentre la Scientifica faceva i rilievi nell’officina di Orofino, la targa in questione non era ancora stata trovata. Verrà rinvenuta in via D’Amelio soltanto il 22 luglio.
Dietro queste strane operazioni, c’è un collaboratore del Sisde già dal 1986. Nome in codice; “Rutilius”. Che risponde al nome più conosciuto di Arnaldo La Barbera, il capo della Squadra Mobile di Palermo.
E’ lui a sollecitare l’intervento della Polizia Scientifica nell’officina di un anonimo carrozziere di Palermo, “che aveva soltanto denunciato (appena un paio d’ore prima) il furto di alcune targhe da un’automobile di un sua cliente” ritrovate, appunto, due giorni dopo in via D’Amelio. Sopralluogo che avviene in un momento in cui ancora non era stato rinvenuto il blocco motore. Che viene poi associato ad una Fiat 126 rispondente ad un proprietario diverso rispetto alla targa ritrovata.
I servizi segreti avrebbero avuto quindi un ruolo decisivo nella strage di via D’Amelio, soprattutto alla luce di quanto riferito dall’attendibile pentito Gaspare Spatuzza, “sulla presenza di un terzo estraneo a Cosa nostra al momento della consegna della Fiat 126, alla vigilia della strage, nel garage di via Villasevaglios, prima del suo caricamento con l’esplosivo”.
“Fin quando non si sarà chiarito questo mistero – ha dichiarato Spatuzza - che per me è fondamentale, è un problema serio per tutto quello che riguarda la mia sicurezza (…). Io sono convinto che non sia una persona riconducibile a Cosa nostra perché (…) c'è questa anomalia di cui per me è inspiegabile”.
La Procura ha sottoposto al pentito diversi album fotografici, con immagini di vari appartenenti al Sisde. E Spatuzza, ne indica sette come “compatibili” don il suo ricordo in quel garage.
Tra questi c’era anche Lorenzo Narracci, poi escluso per i troppi capelli (“tant’è che, ad un certo punto dell’atto istruttorio, il collaboratore si soffermava a lungo sulla sua fotografia, indugiando ed anche mettendo un foglio di carta sopra l’immagine della sua testa, evidentemente, per cercare di visualizzarlo senza i capelli”).
Narracci, era “vice capo del centro Sisde di Palermo e stretto collaboratore di Bruno Contrada, in compagnia del quale si trovava, in mare, al largo della costa siciliana, al momento dello scoppio dell’autobomba”.
A riconoscerlo invece è Massimo Ciancimino, che lo identifica come “soggetto che (a suo dire), aveva collaborato, per lungo tempo, con il suo superiore ‘Carlo/Franco’, nel tenere i rapporti con Vito Ciancimino, oltre che quelli tra quest’ultimo e Bernardo Provenzano”.
La Procura di Caltanissetta iscrive Narracci nel registro delle notizie di reato, per strage e concorso esterno in associazione mafiosa, ma non riscontra le dichiarazioni di Ciancimino, che anzi, veniva iscritto (a sua volta) nel registro delle notizie di reato per l’ipotesi di calunnia aggravata, ai danni di Narracci.
A rendere tutto ancora più inquietante c’è infine la tormentata vicenda del pentito Santino Di Matteo, al quale viene rapito il figlio il 23 novembre del 1993, a causa della sua collaborazione, avviata da circa un mese.
Collaborazione che riguardava soprattutto le sue conoscenze sulla strage di via D’Amelio. Conoscenze, scrivono i giudici, “mai completamente svelate”.
Il 1° dicembre del 1993, arriva la fotografia del piccolo Giuseppe Di Matteo con i giornali di fine novembre e la scritta “Tappaci la bocca”. Mentre il 14 dicembre è la volta di un messaggio dove si leggeva “Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie”.
Il collegamento tra il rapimento e la strage di via D’Amelio emerge con chiarezza in un colloquio tra lo stesso Santo di Matteo e la moglie, registrato presso i locali della DIA.
Un colloquio dove si parla di “infiltrati” nella strage del 19 luglio e dove la donna invitava il marito a “ritrattare” e a “non ricordarsi più della strage di Borsellino”.
Il Pm Nico Gozzo cerca di spronarlo a rivelare tutto ciò che conosce, leggendogli anche la trascrizione di alcune parti di quel colloquio.
"Oh, senti a mia - dice sua moglie - qualcuno è infiltrato per conto della Mafia" e sempre continua sua moglie: "Aspe', fammi parlare - perché lei forse aveva tentato di interromperla - tu questo stai facendo, pirchì tu nun ha pinsari alla strage di Borsellino. A Borsellino c'è stato qualcuno infiltrato che ha preso. Io chistu ti dicu..., forse non hai capito. Tu fa finta, ora parramu". E più avanti: "Bisogna capire se c'è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella Mafia" e poi lei dice: "Iddu mi dissi, dice, tò muglieri suo marito ava a ritrattari. Iddu, Bagarella e Totò sanno pure che c’hanno...”.
Ma niente da fare. La lettura non produce i chiarimenti sperati, anche se rimane il fatto che i due, senza dubbio, avessero parlato di ritrattazione e di infiltrati.
Infine, “Il coinvolgimento diretto del Sisde, al di fuori di qualsivoglia logica e regola processuale, nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, orientate verso la falsa pista di Vincenzo Scarantino”.
L’allora procuratore Giovanni Tinebra, “dopo aver constatato che le forze di polizia nissene non avevano alcuna specifica conoscenza delle dinamiche interne alle famiglie mafiose palermitane, con un’iniziativa affatto singolare – scrivono i giudici - sollecitava una più stretta collaborazione del Sisde nell’espletamento delle indagini per la strage di Via D’Amelio.”
Un’iniziativa improvvida che, secondo i giudici fece maturare dei frutti avvelenati, come ad esempio la nota del 10 ottobre 1992, confezionata dal Sisde proprio nel periodo in cui era in atto il tentativo di far ‘collaborare’ Vincenzo Scarantino”.
L’esca era Vincenzo Pipino, costretto ad andare in cella con lui, dal dottor Arnaldo La Barbera. Ed in quella nota c’era una dettagliata radiografia con i precedenti penali e giudiziari su Vincenzo Scarantino ed i suoi familiari, oltre ai rapporti di parentela ed affinità con esponenti delle famiglie mafiose palermitane.
Insomma, già nell’ottobre del 1992 le basi per “vestire il pupo” erano già state avviate.
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