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23/06/2019 06:00:00

Il pallone gonfiato dei furori identitari

Da che mondo è mondo, chiunque abbia professato una fede di stampo conservatore o reazionario ha sempre sbandierato con vigore il vessillo della “difesa dell'identità”. Il tema non è affatto ideologico o astratto. Riguarda tutti noi, ed è fondamentale non meno delle questioni economiche o di altri problemi, come quello ambientale, che erroneamente si potrebbero supporre più “concreti” e urgenti da affrontare. Lo dimostra il successo crescente che oggi riscuotono in mezzo mondo i movimenti politici e culturali dell'area sovranista. Movimenti che per la loro natura tendono sovente a radicalizzarsi in forme di estremismo violento (fino ad arrivare alle azioni terroristiche dei “suprematisti bianchi”, non meno efferate di quelle compiute dai gihadisti islamici).

Sono tempi duri, per chi ancora crede nella società aperta, nella democrazia liberale e nel progresso sociale. Per chi assiste con sgomento alla deriva politica e culturale che ha portato, in un Paese come il nostro, allo sdoganamento progressivo di tutte le forme di razzismo, xenofobia, nazionalismo, sessismo, omofobia, e chi più ne ha più ne metta. Tempi duri, quando l'onda implacabile dell'odio dilaga sui social, fomentata in modo cinico e irresponsabile da personaggi che detengono alte cariche di potere. Tempi duri, quando nelle piazze si inneggia impunemente al Duce, e si inalberano slogan di adorazione fanatica per le cosiddette “radici”. Radici che “quando sono profonde non gelano mai”, per dirla con un romanziere (Tolkien) che i nostalgici del “bel tempo che fu” adorano citare.

E allora, che fare? Come reagire? Come uscire da questa oscura nottata? Francesco d'Assisi suggerì un'idea: “Non serve a nulla aggredire le tenebre. Basta accendere una piccola luce, ed ecco che esse fuggono spaventate”. Dunque, se ciò è vero, vuol dire che all'irrazionalità di un culto fanatico si può reagire facilmente con un semplice e pacifico recupero della “sindèresi”, ossia della pura facoltà razionale che immediatamente distingue il bene e il male. La nostra guida sia dunque il meraviglioso e sereno Lume della Ragione.

E cosa ci dice la ragione a proposito dell'identità e delle radici? Ci dice, essenzialmente, che esse esistono realmente, ma che in se stesse non sono né un bene né un male. Per esempio, se Tizio dice: “Io sono italiano”, sicuramente ha detto una cosa vera, perché è nato in Italia, parla italiano, vuole gli spaghetti cotti al dente eccetera. Tutto ciò è ineludibile, è la realtà. Nessuno può negare la propria identità. Ma l'identità in se stessa è un bene? Ed è forse anche un “meglio”? Ossia sarebbe forse meglio essere un italiano che essere, per esempio, uno svizzero o un nigeriano?

È qui che la faccenda si complica, ed è qui che il culto dell'identità comincia a mostrare le sue crepe, il suo aspetto irrazionale. In primo luogo, perché essere un italiano non vuol certo dire essere perfetto, o essere il migliore. Perfino Dante, il padre della nostra lingua, riconosceva che al mondo possono esistere altri idiomi ancora più belli del nostro! In secondo luogo, perché sia lo svizzero, sia il nigeriano, avrebbero gioco facile a esaltare i pregi delle loro identità, ed è ovvio intuire che nel gioco ostinato delle contrapposizioni nessuno uscirebbe mai vincitore. La partita non finirebbe mai, nemmeno dopo un milione di rigori ai tempi supplementari.

È evidente allora la necessità di un cambio di prospettiva. Che significa questo? Per venire al punto della questione: noi ci accorgiamo che esistono due modi di concepire l'identità. Il primo modo – quello propugnato dai reazionari e dai sovranisti – è quello delle chiusura: l'identità, e le radici, vengono concepite in chiave di antagonismo e di esclusione nei confronti del nuovo e del diverso. L'altro modo invece – quello che è tipico della mentalità progressista – è quello dell'apertura: l'identità non viene negata, le radici non vengono recise, ma il nuovo e il diverso non vengono visti con sospetto e con ostilità, anzi, vengono accettati e inclusi nel proprio sistema di valori in base a una selezione dei loro aspetti più positivi. Per fare un esempio stupidissimo: io mangio e apprezzo i formaggi svizzeri fino a sentirli parte della mia stessa cultura alimentare. E mi piacciono perfino gli orologi a cucù. Se sono nato in provincia di Trapani amerò il cuscùs, ma non uscirò mai di notte col cappuccio del Cus-Cus Klan a bruciare le case dei “polentoni”.

La conclusione di questo discorso è elementare. Amare e anche difendere la propria identità non significa necessariamente chiudersi nel recinto rassicurante di quella identità. La chiusura porta al conflitto e all'impoverimento. La chiusura ha sempre generato l'odio e le guerre. Non per nulla “sangue e suolo” era il motto della “mistica” nazista. L'apertura, al contrario, è la via maestra della pace e dell'arricchimento. Vogliamo essere tutti più ricchi e pacifici, o più poveri e bellicosi? Qui sì che davvero non c'è partita. Tra le due opzioni in gara non v'è nessun bisogno di tempi supplementari. E il pallone gonfiato dei furori identitari si sgonfia in un attimo. Un piccolo e semplice ragionamento, come una piccola luce, ha spaventato le tenebre dell'irrazionalità e le ha fatte sparire per sempre.

 

Selinos