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28/07/2019 06:00:00

Come fu che vinsi e subito persi la mia prima e unica coppa

 di Marcello Benfante 

“Pochi momenti come questo belli,

a quanti l'odio consuma e l'amore,

è dato, sotto il cielo, di vedere”

(Umberto Saba, Goal)

 

Dedicato al mio figlioccio fiorentino Vittorio Luconi 

 

Non ho iniziato precocemente a giocare a calcio. Come un po’ tutte le cose pratiche, nella mia vita. 

Fino a dieci anni ho vissuto in via Salomone Marino, ai margini del centro storico di Palermo, nella casa in cui sono nato, dalla quale a me e a mio fratello, benché più grande di tre anni, era interdetta l’uscita, se non accompagnati. 

 

 

Si andava a Villa Giulia, in carrozzella, preferibilmente trainata da un cavallo bianco, scortati dalla mamma. Oppure al cinema, in macchina, con mio zio Gianni, d’estate soprattutto all’arena Tukory, a vedere quasi sempre film western. E ogni mattina ovviamente si andava a scuola, al “Perez”, ma sempre condotti dalla mamma o da amici di famiglia. Ci fermavamo un minuto al panificio sotto casa per comprare la merenda. Io  decidevo sul momento se volevo una Maria Stuarda o una Genovese. Raramente altro.

Da un balconcino, io e mio fratello guardavamo con malinconica invidia i ragazzini del quartiere proibito che giocavano a pallone per strada. E una volta li abbiamo osservati, con un misto di entusiasmo e timore, mentre erigevano un’enorme catasta di legna per la vampa di San Giuseppe.

Poi nell’estate del 1965 ci trasferimmo in via Belgio, nella città nuova che si andava costruendo. Come dire nel selvaggio West. Tutt’intorno era campagna. Un paradiso inebriante di agrumeti che nel giro di pochi anni sarebbero stati soppiantati dai palazzoni sorti come funghi velenosi intorno al modernissimo (e subito obsoleto) viale Strasburgo. E lì, nelle terre degli ultimi contadini e dei pionieri borghesi, ci fu concessa finalmente la libera uscita.

Furono anni magnifici di iniziazione. Di corse in bicicletta e di sciarre, di spericolate acrobazie e di gran scorpacciate a sbafo di mandarini e fichi, inseguiti da mute di cani o da anziani villani inferociti.

Un giorno tornai a casa in preda a un entusiasmo incontenibile: avevo contato quaranta amici con cui passavo i pomeriggi a giocare, e volli subito dirlo a mia mamma!

Era l’esercito dei ragazzi della via Pal(ermo). E infatti si combatteva. Sanguinosamente, con tutto ciò che si poteva scagliare o brandire contro il nemico. Sassi, carciofi acuminati, canne, bastoni e fionde ricavati da rami. Battaglie furiosissime, prove di forza e di destrezza. L’età della pietra. Diciamo il mio Paleolitico.

Inutile specificare che il gioco prediletto, il gioco per eccellenza, era il calcio. Imparai quasi subito, dopo qualche esitazione dovuta alla timidezza, e scoprii che me la cavavo abbastanza bene. Dei miei coetanei dell’isolato ero il migliore. Una specie di capitano. Non troppo coraggioso, tuttavia. Nelle partite partite più importanti, contro squadre di altri quartieri, spesso mi smarrivo in campo e non trovavo il bandolo per uscire dal mio labirinto di insicurezze. 

Mio fratello giocava con i “grandi”, e spesso io seguivo le loro trasferte, come tifoso e porta acqua, talora al Don Bosco e in altri campetti parrocchiali o periferici.

Ero interista, soprattutto per amore di Mazzola, del suo gioco lineare e scattante, della sua pulizia ed essenzialità che per me era il massimo dell’eleganza.

Ma ovviamente eravamo tutti tifosi sfegatati del Palermo. E quando completai le figurine della squadra rosanero sull’album Panini fui - per un istante - il ragazzo più felice della terra.

Alle scuole medie, la passione per il calcio era tale in me e nei miei compagni che, durante la ricreazione, giocavano perfino con le pietre al posto della palla nella grande terrazza-atrio sopraelevata del “Vittorio Veneto”. Diciamo il mio Neolitico.

Spesso (visto il rischio perenne dell’arrocco o della bucatura) si faceva la colletta per comprare un nuovo pallone, che poi non si capiva di chi era e chi doveva portarselo  a casa e averne la responsabilità. Come dire, l’onore e l’onere. 

Si giocava per strada, poiché il traffico automobilistico era molto esiguo, oppure in angusti marciapiedi e cortiletti.  

A scuola riuscimmo a mettere insieme una squadretta cui demmo il nome un po’ western di “Rangers”. Il merito fu del mio compagno Ivano Cavani. Per meglio dire, di suo padre, che era un ex calciatore professionista (o semiprofessionista).

I Cavani erano toscani, non so come e perché capitati in Sicilia. Ivano (che incontrai nuovamente molti anni dopo al Giornale di Sicilia, dove lui era un operatore televisivo e io un collaboratore esterno) non era velocissimo, ma era molto forte e bravo. Avevamo anche una piccola punta, micidiale, che si chiamava Parisi (il nome l’ho scordato: a scuola usavamo soltanto il cognome, come nel “Cuore” deamicisiano).

Cavani senior era il nostro allenatore. Si diceva che in gioventù avesse giocato in serie C. Che per noi era come dire in Nazionale. 

Era un buon maestro e ci insegnò le cose fondamentali: anticipare, andare incontro alla palla e non rimanere fermi ad aspettarla, raddoppiare la marcatura, ripartire in contropiede, giocare di prima, sentirsi sempre parte di una squadra, senza mai eccedere in individualismi stucchevoli.

Avevamo alcuni schemi: una specie di proto-calcio totale all’olandese che prevedeva attacchi corali e ordinati ripieghi. Io, che avevo fiato da vendere, facevo continuamente la spola tra attacco e difesa. Mister Cavani mi disse che ero un “mediano di spinta”, formula che a lungo rimase per me misteriosa e un po’ offensiva. 

Ripiegavo spesso, per disciplina, in appoggio alla difesa, nonostante una naturale propensione offensiva. Però segnavo spesso, anche se mi mancava l’egoismo rapace e l’opportunismo tattico della vera punta.

Insomma, dopo le ordalie della strada, ora giocavamo davvero, con criterio, con ordine, con la testa prima ancora che con i piedi. E infatti eravamo bravini, non tanto singolarmente, ma come gruppo.

Quando si trattò di scegliere la maglia, pensammo ovviamente che il rosanero ci avrebbe messo tutti d’accordo, interisti e milanisti, juventini e torinesi, romanisti e laziali. 

Ma Cavani senior ci convinse, guarda caso, ad adottare la maglia della Fiorentina. Disse che era un’occasione, che si poteva averla a un prezzo scontatissimo. Ovviamente, ci ingannava per farci indossare la maglia della sua squadra del cuore. E fu così che adottammo la divisa viola (a cui sono ancora affezionato).

Frequentavamo la terza media allorché partecipammo a un piccolo campionato, con in palio una coppa, una vera coppa, acquistata con le quote dell’iscrizione al torneo. Si giocava in un campetto in terra battuta all’interno della Favorita. Le porte erano provviste di pali e traverse, ma non di reti. Il che talora dava luogo a contestazioni per l’assegnazione di un goal. Si calcolavano le traiettorie a occhio, e l’occhio si prendeva sempre la sua parte. Per fortuna c’era un arbitro a dirimere simili controversie. Un piccolo pubblico di amici e parenti assisteva alle partite. Tra essi c’era mio zio Gianni, sempre presente nelle mie avventure. 

Vincemmo tutti gli incontri. Io feci alcuni goal memorabili (nel senso che me li ricordo ancora). Una volta andai in rete dopo una serpentina compostissima da quasi metà campo. Proprio come il mio idolo Mazzola contro il Vasas a Budapest! O quasi.

Insomma, arrivammo in finale. Nostro avversario era il Liverpool della borgata di Pallavicino. Non vorrei fare accuse avventate, ma i giocatori del Liverpool erano tutti troppo grandi per noi, troppo alti, troppo robusti. Troppo pelosi e barbuti.

C’era infatti un limite anagrafico, mi pare di quattordici o quindici anni. Era ammesso un solo fuori quota. E invece il Liverpool era composto quasi totalmente da ragazzi maggiorenni o pressoché. Tuttavia, resistemmo alla loro superiorità fisica. Io, che ero magrissimo, cadevo a terra a ogni contatto e perdevo tutti i tackle. Per non dire della fallosità del loro gioco… Salvammo le gambe solo grazie alla nostra agilità e alla velocità degli scambi. 

All’inizio loro si portarono avanti di due lunghezze. Ma poi, anche grazie all’incoraggiamento e alla guida del signor Cavani, ci riorganizzammo e tenemmo testa ai nostri avversari, costringendoli a ripiegare. Nel finale realizzammo un recupero straordinario: da tre a uno a tre pari!

La finale doveva essere ripetuta. Stavolta fummo subito superiori e li battemmo nettamente. Due a zero (mi pare: ma simili rimembranze spesso arrotondano per eccesso). Eravamo noi i campioni. Ma la coppa non c’era, e nemmeno gli organizzatori del torneo, che avevano disertato la partita e si erano eclissati misteriosamente (ho sempre avuto il sospetto che avessero assegnato già la coppa al Liverpool, forse in seguito a qualche minaccia o promessa).

Avevamo tutti le lacrime agli occhi per la rabbia. Il nostro allenatore ci disse che non importava. Eravamo noi i vincitori, con o senza coppa.

Non che la lezione mi sembrasse retorica o blandamente consolatoria, ma quella coppa io l’avrei voluta stringere e alzare al cielo. Per qualche tempo la sognai. Poi, crescendo, sognai d’altro. 

Però quella coppa, quella coppa vinta sul campo, con coraggio e sudore, non mi pare di averla mai scordata, ora che ci penso. E mi sento ancora in credito con la piccola gloria dei giochi e dei ragazzi. Che poi è l’unica gloria vera.

 




MARCELLO BENFANTE (Palermo, 1955), narratore e saggista. Tra i suoi ultimi libri, «L’uomo che guardava le donne» (Avagliano, 2009), «Leonardo Sciascia. Appunti su uno scrittore eretico» (Gaffi, 2009), «Il sentimento del male» (Gaffi, 2014), «Vorago et vertigo» (il Palindromo, 2017). Attualmente scrive sulle pagine palermitane del quotidiano “la Repubblica” e collabora alla rivista “Gli Asini”.