E così, non senza una certa sorpresa, vengo a scoprire che venerdì 27 marzo ogni fedele cattolico che sarà colto dall’irrefrenabile desiderio di unirsi in preghiera col pontefice otterrà l’inestimabile beneficio dell’indulgenza plenaria: vi sarebbe da sorridere se non vi fosse da piangere. E me ne rammarico, poiché questo vescovo di Roma, di cui mi capita di apprezzare alcune esternazioni e non pochi slanci, sembra oscillare perennemente, come avrebbe detto Šestov, tra «audacie e sottomissioni».
Dopo l’invito ad unirsi, appena poche ore prima, in un momento di preghiera interreligiosa alle ore 21 di giovedì 26 marzo, segue immediatamente questo richiamo ad una prassi premoderna, che pensavo – in tutta onestà – essersi estinta. Ma al di là dei gusti teologici e delle sensibilità che li determinano, l’appello mi sconvolge per una ragione più profonda e inquietante: chiedere l’indulgenza a Dio in relazione alla dolorosa e incerta situazione che stiamo attraversando, induce in me il sospetto che si abbia, di Dio, una concezione secondo cui Egli dispensa il flagello della malattia come punizione e la sua cessazione repentina e miracolosa come clemente redenzione.
Mi domando come sia possibile, all’alba del ventunesimo secolo, sposare ancora una visione così retriva e, a ben guardare, avvilente, che fa dell’essere umano una creatura alla mercé di un Dio di cui sembra essere chiamato a implorare inopinatamente la misericordia di fronte a ciò che, di divino, non ha nulla, come la diffusione incontrollata di un virus. La malattia come punizione per il peccato? Credevo che fossimo usciti definitivamente da questa visione indegna non soltanto di un dio, ma prima ancora di noi esseri umani. La grettezza di una teologia retributiva, che ho sempre avvertito come profondamente estranea, credevo fosse stata archiviata da Giobbe, che in alcun modo riusciva a capacitarsi di quell’illogica e – prima ancora – inumana correlazione tra trasgressione e punizione. Lo scoppio infausto e triste di una pandemia non ha alcun rapporto con Dio: non, almeno, col Dio intriso d’umanità di cui narrano Gesù e i profeti e di cui trasudano, senza mai nominarlo, le splendide pagine del Qohelet.
Restare prigionieri di una visione che inchioda l’essere umano a colpe inesistenti è il modo più subdolo di renderci estranei a quelle che, invece, sono le nostre responsabilità, rispetto alle quali l’esplosione incontrollata di una pandemia non rappresenta in alcun modo il castigo, quanto, piuttosto, la conseguenza. Ma all’
homo religiosus non è mai piaciuto parlare di responsabilità e, men che meno, assumersele: meglio l’ipocrisia e l’infingimento di quell’eterno ricorso alla colpa che imbriglia e paralizza, ma che presenta il vantaggio di poter essere su altri caricata e scaricata e da altri – sempre tardivamente – espiata e redenta. Di questo falso sollievo in cui si culla una fede posticcia, che crea le proprie paure per poi fingere di risolverle nel lasciare che affiorino incontrollate, parla con la consueta irriverenza Emil Cioran, che descrive assai meglio di quanto io sappia fare l’eterno, incompreso teatro della nostra psiche:
«L’ansioso – scrive – si aggrappa a tutto ciò che può rafforzare, stimolare il suo malessere provvidenziale: volerlo guarire significa comprometterne l’equilibrio, dato che l’ansia è il fondamento della sua esistenza (…) Il confessore scaltro sa che quest’ansia è necessaria, che una volta che la si è conosciuta non si può farne a meno. Poiché non osa vantarne i benefici, si serve di una via indiretta: elogia la colpa, forma ammessa, onorevole, dell’ansia. I suoi clienti gliene sono grati. Per questo non fatica a conservarli, mentre i suoi colleghi laici si dibattono e si umiliano per non perdere i propri».
[1]
Alessandro Esposito, pastore valdese
da Adista.it
[1] Cioran, Emil
L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano, 1991, pag. 135.
(28 marzo 2020)