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06/06/2020 10:35:00

Clericalismo e laicismo. Una Chiesa in perenne sinodalità

 «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» (Mt 28, 19-20). Sono le parole con cui Gesù manda i suoi undici discepoli nel mondo e affida loro il compito di essere missionari e di partecipare a tutti la lieta novella che Gesù è il salvatore.


Da questo compito di annuncio a tutti gli uomini di buona volontà ebbe inizio quello che si è andato sviluppando all’interno della Chiesa fino a raggiungere, con i loro successori, un’autorità assoluta da essere contrapposta e osteggiata nei secoli. Da qui nasce l’anticlericalismo e si rafforza con il potere temporale della chiesa. Si esprime dal XVI secolo con il protestantesimo, si rassoda con il potere dei Gesuiti fino alla loro soppressione (avvenuta ufficialmente nel 1773) e poi nel XIX secolo, in seguito al dogma dell’infallibilità del papa, sotto Pio IX. La contrapposizione tra visione clericale e laicale sfocerà in una teoria che si rifà al clericalismo e al laicismo, il primo inteso come forma deviante di concepire il clero, ossequio eccessivo, tendente a riconoscergli una superiorità morale, il secondo come atteggiamento ideologico e pratico che si oppone all’ingerenza del clero nella vita civile e a ogni forma di clericalismo e di confessionalismo. 


Se da una parte abbiamo un attacco al clericalismo, dall’altra esso si rafforza al suo interno come potere gerarchico e totale comunione e sottomissione al Papa, accentuando la differenza con il laicato, come classe subordinata alla gerarchia. C’è voluto il Vaticano II per riportare teoricamente la presenza sia del clero che dei laici su un piano paritetico definendo la Chiesa tutta “Popolo di Dio” (Lumen gentium, cap. II): tutti sono battezzati, ognuno partecipa al suo sacerdozio con doni, carismi e ministeri diversi, i laici con quello comune e il clero con quello ordinato. E nella Presbyterorum Ordinis i presbiteri sono esortati a curare «Soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati» (6).
Due osservazioni: Oggi il presbiterato e il diaconato femminili sembrano come una richiesta per il rafforzamento del clericalismo stesso. «Temo la soluzione del “machismo in gonnella” - dice Papa Francesco - perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo». (Intervista al direttore di “Civiltà Cattolica” padre Antonio Spadaro).
Si è confuso nella storia il rapporto tra clericale (o gerarchia) e cattolico: non sono sinonimi, sono due concetti che si possono integrare ma hanno una loro valenza terminologica e prassistica. Il solo popolo di Dio è universale (LG 13-14): «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il Popolo di Dio. Perciò (…) pur restando uno e unico si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli» (LG 13). Il Popolo di Dio ha il compito d’individuare il messaggio di Dio in ordine ai tempi e calarlo nella storia e negli ambiti propri.
Eppure si è scompaginato il concetto tra Chiesa e gerarchia come se fosse un tutt’uno, separando e accentuando la diversità di ruoli tra clero e laici, subordinandoli questi a quello; ma non c’è secondarietà, solo una divisione dei compiti, poiché unico è lo Spirito. In ciò la Chiesa non sta realizzando il modello proposto da Cristo, e deve trovarsi continuamente in atteggiamento di riforma al suo interno per un adeguamento alla conversione.
La gerarchia ha una funzione ben definita che è quello di condurre il gregge, i battezzati, all’ovile della salvezza e questo come servizio e non come potere. San Pietro esorta: «Non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5, 3). «Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore» dice Sant’Agostino (Commento al Vangelo di san Giovanni, 123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr. S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15).


Il laicato non è il surrogato della gerarchia, né questa può chiedere soccorso ad essa in alcuni momenti della storia e della vita concreta, salvo poi a dimenticarsene. “I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi [sacerdoti] siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro” (Lettera al card. Ouellet di Papa Francesco). Esiste una teologia del laicato ben definita e sacramentale (cfr. LG, cap. IV). Il laicato, vivendo nel tempo, intercetta più facilmente i cambiamenti e quindi i bisogni dell’uomo. Tra gerarchia e laicato ci dovrebbe essere un’intesa osmotica. L’intento non è di occupare spazi ma di aprire processi di corresponsabilità per arrivare, la Chiesa tutta, a essere “ospedale da campo”: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso». (Intervista a padre Antonio Spadaro). Eppure si ha quasi paura del laicato e si fa quadrato attorno alla gerarchia. I ruoli che potrebbero portare avanti con competenza i laici non vengono loro affidati perché tutto deve rimanere a gestione gerarchizzata, salvo, poi, a non vedere affrontati, da quest’ultima, i problemi o per incompetenza o per un accumulo di ruoli. Spesso la richiesta del laicato di suddividere i compiti e assumere delle responsabilità viene vista come intromissione e non come servizio: è urgente una promozione del laicato per una collaborazione con la gerarchia. C’è ormai una maturità nel laicato sia spirituale e di servizio che sovrasta, a volte, quello della scala gerarchica: è il segno tangibile che lo Spirito Santo opera con forza nella loro vita in modo irruento al di là dei ruoli assegnati. Con il giorno della Pentecoste gli Apostoli non aspettarono a organizzarsi per annunziare la Parola e battezzare ma si misero all’opera come lo stesso Spirito dettava loro e, pieni della Grazia divina, fecero conoscere quel messaggio che proveniva dal Padre tramite Gesù Cristo. Oggi si è molto “politicizzati” e “burocratizzati”, si dice che ci vuole una pastorale adeguata (ancora una forma di clericalizzazione e di poca fiducia nella formazione laicale) e in attesa dell’organizzazione ci si allontana perdendo forze efficaci nella chiesa.
«Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina... Quando il dialogo tra la gente e i vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi... Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente al sentire con la sua parte gerarchica». E la Chiesa non va ridotta a «una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità» (ib.).
Tutto ciò che è della Chiesa e nella Chiesa appartiene a tutti in modo indistinto, a partire dai Sacramenti, dalla Grazia di Dio che viene distribuita equamente, dei beni che sono di proprietà di tutti e non, appena acquisiti, solo patrimonio del clero, mentre prima appartenevano ai laici e a questi erano chiesti spesso pietosamente. Se dai laici sono elargiti alla Chiesa, questa, nel bisogno dovrà metterli a disposizione di tutti e non ampliare il proprio patrimonio. È prassi che nella vendita di esso, a esempio, il laicato non viene nemmeno consultato, come se quello che è stato messo da parte “pietra su pietra” non fosse stato costruito col contributo e i sacrifici anche dei laici.


Mi piace parlare di una teologia comunionale, sinodale, di una visione Cristocentrica della vita, del mondo e della Chiesa, così come intende Sant’Agostino nel De pastoribus sul legame tra pastore e popolo. “A ognuno tocca il suo compito”, come si suol dire, il resto è strapotere: al voler strafare male subentra un “formalismo di autoreferenzialità”, si diventa spesso “mestieranti del sacro” e di ciò che ad esso è surrogato. C’è un’omologazione e prelazione delle risposte ai bisogni da parte della gerarchia, come se la carità e il servizio fossero soltanto una loro prerogativa. Le omelie risentono, nel linguaggio comunicativo, di un’accentuazione delle funzioni e dei servizi resi dalla gerarchia, dimenticandosi che in tutto il loro operato la presenza dei laici è notevole e, spesso, preponderante.
Gli Organismi di partecipazione, cosiddette “Consulte” sono di frequente convenzionali e non sostanziali. “Voglio consultazioni reali, non formali”, dice Papa Francesco (ib.).
La ripresa di un cammino comune per una rinnovata scoperta dell’appartenenza a Cristo ci riporti a mettere in prim’ordine il suo sacrificio che è per la salvezza di tutti gli uomini a qualunque popolo e nazione appartengano. Il suo Spirito guidi la Chiesa perché «Tutti siano una cosa sola: come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch'essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato. Io ho dato loro la stessa gloria che tu avevi dato a me, perché anch'essi siano una cosa sola come noi: io unito a loro e tu unito a me» (Gv 17, 21-23).

Salvatore Agueci