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10/06/2020 16:30:00

L'assurda banalità del male

di Gianfranco Perriera

Absurdus dal punto di vista etimologico rimanda a stonato, disarmonico. Contrario alla logica, sconveniente incongruente ed incomprensibile, in tale accezione, sostanzialmente, recepiamo il termine assurdo. Dalle parti del sordo si potrebbe anche tradurre, come ad indicare che un’eventuale possibilità comunicativa si possa considerare interdetta. Nell’etichetta di teatro dell’Assurdo, intorno agli anni ’50 del secolo scorso furono fatti rientrare una serie di autori che sulla estraneità dell’uomo al mondo e sulla possibile assenza di senso nell’esistenza umana concentrarono una buona parte delle loro opere. Adamov, Beckett, Ionesco, Tardieu, Vian, Pinget, Simpson (anche Pinter, a torto, vi fu fatto rientrare) sono i più noti. Da Ionesco si lasciano condurre queste righe, dal drammaturgo, cioè, di origine romena, trasferitosi a Parigi l’anno dopo la nascita, che tra gli autori legati da quest’aria di famiglia, rappresenta l’anima che seppe manifestare lo spaesamento umano probabilmente con il maggior estro comico. “Assurdo è ciò che è privo di scopo – aveva scritto in Tra le braccia della città, saggio dedicato a Kafka - recise le sue radici religiose, metafisiche e trascendentali l’uomo è perduto: tutte le sue azioni divengono insensate, ridicole, inutili”. In sintonia con la ben più nota affermazione di Camus ne Il mito di Sisifo - per cui “un mondo che possa essere spiegato sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l’uomo si sente un estraneo: e tale esilio è senza rimedio, perché privato di ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa.” – Ionesco mostrava gli umani imprigionati nelle secche di luoghi comuni e di convenzioni sociali all’interno delle quali si dibattevano spesso in modo funambolico e spiritato, per tentare di non soccombere all’afasia e alla dissennatezza. Ionesco intuiva che era proprio la dimensione del possibile, di un oltre a cui tendere e sulla cui ispirazione regolare le proprie azioni, che veniva a mancare agli umani e perciò stesso li rendeva estranei alla storia che nel tempo si produceva. Precipitavano così nel non senso. E a questo in gran parte finivano per adeguarsi. In un processo di assimilazione destinato prima o poi ad esplodere in una feroce sarabanda come indicavano le scene finali de La Cantatrice Calva, la esilarante anticommedia andata in scena a Parigi nel maggio del 1950, in cui due famiglie della media borghesia inglese si esaltavano in avventurosi calembour, finendo travolti da una conversazione impastoiata nella banalità. Gli umani non riflettevano più. Non esprimevano più idee. Era la lingua a parlarli. Una lingua ridotta a proposizioni referenziali avulse da qualsiasi contesto, che a furia di comunicare banalità finiscono per sgretolarsi in suoni sempre più disarticolati.

Gli umani consistono interamente nelle ovvietà che le loro bocche si sentono spinte a pronunciare. Ma, nel contempo, almeno alcuni, smaniano e si accendono iperbolicamente proprio perché avvertono un vuoto all’interno di se stessi e nel rapporto tra lingua, referenti e contesto di senso. Atri, i più cinici e smagati, con cipiglio fiero, pronunciano ordini o frasi intimidatorie. Del resto, come aveva scritto Canetti in Massa e Potere, “l’ordine è più antico del linguaggio, altrimenti i cani non potrebbero conoscerlo. L’addestramento degli animali si fonda proprio sul fatto che essi, pur ignorando il linguaggio, imparano a capire ciò che si richiede loro”.

La psicanalisi di fine ottocento aveva provveduto a disintegrare qualsiasi ipotesi di consistenza compatta dell’io. Già Ibsen aveva detto nel Peer Gynt, che l’io è come una cipolla, si sfoglia strato dopo strato e non resta alcun nocciolo. Le due guerre mondiali, e in particolare l’ultima - che agli orrori della guerra aveva aggiunto quello dei campi di concentramento e del genocidio – avevano trasformato gran parte dell’Europa in un terreno di macerie. Il processo che conduce ciascun vivente alla formazione di un soggetto responsabile e aperto all’altro non è certo mai stato una bazzecola. Le pressioni interne (passioni, desideri, affetti) e quelle esterne (tradizioni e convenzioni della cultura in cui si nasce) rendono parecchio difficile lo scarto che dia vita a singolarità responsabili. Ancora più arduo diventava lo sforzo del singolo per imparare – dopo l’esperienza di totalitarismi e guerra mondiale – a dire nuovamente “io”. Mentre i mezzi di comunicazione si avvalevano di una potenza e di una pervasività sempre più reboante, l’ultima catastrofica esperienza degli umani, se ancora fosse rimasto qualche dubbio, aveva tragicamente mostrato che le masse sono pronte a seguire i dittatori (anche in paesi come Germania e Francia che potevano vantare una cultura letteraria, scientifica e filosofica di livello altissimo).

Lo sbriciolamento del soggetto, in un mondo che si affidava a un liberismo che con il tempo, sarebbe stato sempre più aggressivo, non chiedeva nemmeno più rimozione. Il lucore del denaro e un consumo che invitava, almeno in teoria, al godimento compulsivo, la rendevano superflua. Adorno poteva scrivere già in alcuni abbozzi degli anni’ 40 poi ripresi negli anni ‘60: “il concetto dell’individuo è obsoleto o quanto meno logoro […] Gli uomini massificati rimuovono molto poco. […] Manca l’istanza dell’io, che determina la rimozione. Ciononostante essi sono «abnormi» in un senso più profondo, perché la loro rimozione e la soddisfazione delle loro pulsioni si costituiscono in modo insolito e mutilato per il tramite del soggetto collettivo”.

Dei rischi e insieme dell’irresistibile grottesco che questa paventata abnormità degli umani comportava, Ionesco si fece spesso il divertentissimo cantore. “Ah!... Il dolore, i rimpianti, i rimorsi, non c'è altro, non ci resta altro”, dice Il Vecchio de Le sedie, farsa tragica in cui due vecchi quasi centenari, nel deserto che ormai li circonda, immaginano di accogliere a casa loro un’infinità di ospiti immaginari a cui promettono le indispensabili rivelazioni di un oratore che si rivelerà muto. In Amedeo o come sbarazzarsene, Amedeo è uno scrittore fallito, un autore senza più alcuna opera. Il suo pensiero, la sua creatività, si è arenata su due sole battute pronunciate da una coppia di vecchi. “Credi che sia possibile?”, chiede la vecchia al vecchio. “Ci vorrebbe una spinta”, risponde laconicamente il vecchio. E intanto il cadavere che è contenuto nella loro casa si ingigantisce giorno dopo giorno. “Avevo torto! Ah, vorrei essere come loro! Non ho niente in testa, neanche un corno! Com'è brutta la mia fronte così piatta, liscia... ci vorrebbero un corno o due, così anche i miei tratti risalterebbero meglio... Chissà, forse spunteranno, e allora non mi sentirò più così umiliato, potrò andare a raggiungerli” grida Berenger ne Il rinoceronte, circondato ormai soltanto da queste bestie dalla pelle ruvida e tutta verde così paghi della loro beata animalità in cui tutti gli umani hanno acconsentito a trasformarsi.

Dai testi di Ionesco, di cui in queste righe si è appena accennato, traspare una sorta di dilagante smemoratezza che pare attanagliare l’umano, condannato a vuote scaramucce, ad una nevrosi da perenne insoddisfazione e in cerca di qualche ragione per trascorrere il tempo e rendere le chiacchiere almeno un po’ vivaci. Di mancanza di ispirazione, in fondo si tratta. Il pensiero degli umani è di corto respiro. Non crede più in un possibile che trascenda i dati di fatto assai banali e brutali, che si danno come eterni. A distanza di più di settanta anni dalla prima opera teatrale di Ionesco, la nostra epoca sembra ancora più avvilita e sfiduciata. E le feste che raccomandava per distrarsi appaiono sempre meno praticabili.

“Non sono mai riuscito ad abituarmi completamente all’esistenza, né a quella del mondo, né a quella degli altri, né soprattutto alla mia”, aveva scritto Ionesco in Note e contronote. Nei paradossi che ci strappano ancora briose risate, Ionesco ci ha allora raccomandato la figura dell’esodo, con cui sottrarci, con la giusta dose di ironia, alla banalità del male a cui l’epoca vorrebbe farci rassegnare.