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05/12/2020 06:00:00

Come un bambino che sbircia da una fessura l'albero di Natale

di Marcello Benfante

Autore di lavori critici e filosofici fondamentali e talora piuttosto ostici, quali “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, “Angelus Novus” e “Il dramma barocco tedesco”, Walter Benjamin fu anche, e non marginalmente, un attento studioso, nonché un collezionista appassionato, di libri per l’infanzia.

Il suo “Orbis Pictus”, recentemente apparso per i tipi dell’editore Giometti & Antonello di Macerata, a cura di Giulio Schiavoni (pagine 140 – euro 22), raccoglie una serie di suoi brevi testi sulla letteratura per l’infanzia apparsi tra il 1924 e il 1931, ai quali aggiunge opportunamente l’indice della collezione di libri per l’infanzia che Benjamin iniziò a raccogliere nel 1918 e che in realtà apparteneva formalmente alla moglie Dora Kellner.

Si tratta di una produzione che potrebbe sembrare secondaria,, sia per la tipologia dei testi di Benjamin, fondamentalmente brevi recensioni, sia per l’oggetto di studio, soprattutto desueti abbecedari e sillabari o vecchi e rari libri sopravvissuti a una devastante falcidia storica e ormai pressoché introvabili.

Lungi dall’essere riconducibili a un vezzo o a un mero sfizio ludico, si tratta piuttosto di considerazioni centrali e di grande rilievo nel pensiero di Benjamin.

Sono riflessioni e intuizioni nel campo pedagogico, nella psicologia del collezionismo e della bibliofilia, ma anche in campo estetico, soprattutto riguardo al potere evocativo delle illustrazioni. E anche notazioni storiche, letterarie e sociologiche di rara pregnanza in cui si contesta e si respinge sia il didascalismo filantropico insito in quasi tutta la letteratura per l’infanzia, anche nella forme indirette e subdole di certi “educatori occulti”, sia una concezione utilitaristica che vorrebbe tale genere subordinato e finalizzato al processo produttivo di beni e ad un investimento nel processo economico di emancipazione sociale.

La prima rivendicazione di Benjamin è “l’autonomia da ogni ottica pedagogica” nell’approccio al libro per l’infanzia, una presa di distanza nei confronti delle sentenza morali e di simili pedanterie catechistiche.

Di contro egli esalta la pura felicità da cui scaturisce un’intima comprensione e condivisione del mondo infantile, come accade in certe forme di collezionismo: “poteva scoprire questo campo di collezione – il libro infantile – soltanto chi non ha ripudiato la gioia infantile per esso”.

E certamente non l’aveva ripudiato Benjamin, né in teoria e nemmeno nella sua pratica di appartato collezionista, ma anzi lo rivendicava con straordinaria sensibilità e intelligenza.

Come ha scritto il suo collega e sodale T. W. Adorno: “Quel che Benjamin diceva e scriveva sonava come se il pensiero facesse sue le premesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto, e così letteralmente che persino l’adempimento reale entra negli orizzonti della conoscenza. La rassegnazione era radicalmente bandita dalla sua topografia filosofica. Chi entrava in consonanza con lui si sentiva come un bambino che scorga attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di Natale”

Il discorso di Benjamin verte quindi su un mondo che reca i segni del diverso (rispetto alla prospettiva pragmatica degli adulti), la cui chiave interpretativa si trova interrata e nascosta in “forme pietrificate e ormai irriconoscibili della nostra prima felicità, del nostro primo orrore”. Un mondo di autarchica e sublime fantasia che nega e aborrisce la produttività di certa pedagogia autoritaria e ipocrita in cui si esprime un dominio di classe.

Non si tratta pertanto di produrre oggetti, giochi o libri che siano adatti ai bambini, preoccupazione oziosa quanto spasmodica, in cui si rivela “una delle più ammuffite forme di elucubrazione dei pedagogisti”.

Si tratta piuttosto di capire il fenomeno rivelatore per cui i bambini sono “irresistibilmente attratti dal residuo” e si riconoscono nei prodotti di scarto, che adoperano tuttavia in modalità originali e imprevedibili.

È in questa maniera che i bambini forgiano un loro mondo di autonoma e delicata inventiva. La fiaba stessa è un residuo di tal genere, “forse il più potente che si trovi nella storia spirituale dell’umanità”, ossia uno scarto inutilizzabile e irrecuperabile nei consueti processi produttivi.

La peculiarità della fiaba consiste proprio in questa sua diseconomia, in questo suo spreco parsimonioso, in questo riuso dei materiali espulsi dal ciclo produttivo.

In questa resistenza contro la prassi finalizzante, il bambino trova due alleati: l’illustratore (un artista sovversivo e spesso anonimo, del tutto refrattario alle leggi del profitto) e il collezionista (un cultore del bello e del gioco fini a se stessi). Il primo si sottrae “al controllo delle teorie filantropiche”, dando vita a “un mondo autosufficiente di colori splendidi” in cui la pura fantasia del bambino “si libera da ogni responsabilità” nei confronti della realtà oggettiva.

Il colore costituisce dunque un’interiorità in cui “si svolge la vita onirica che le cose conducono nella mente del bambino”.

L’immagine colorata induce infatti la fantasia del bambino a immergersi in se stessa.

Per cui, se nel regno regno delle immagini acromatiche il bambino si sveglia e viene spinto verso un atteggiamento esterno, analitico, didattico, in quello delle immagini colorate si abbandona ai suoi sogni.

In questo stato di abbandono incosciente, almeno parzialmente, ogni apprendimento assume un carattere avventuroso. È in questo modo movimentato e felice, filodrammatico, per così dire, in cui “le parole si vestono in costume”, che i bambini scrivono e vivono i loro testi, ed è anche così che le leggono: “Quando inventano storie, i bambini sono registi che non si lasciano tarpare le ali dal ‘senso’ ”.

La libera messa in scena del bambino è un gioco semi-onirico, un’esperienza di felicità dissennata e sovversiva, una sorta di giocosa espropriazione degli espropriatori (il bambino educatore dei suoi stolidi educatori) che potremmo in qualche modo assimilare alla critica radicale della borghesia operata dai surrealisti.

A questo sentimento di anarchica ebbrezza, disinibito dagli obblighi del significato istruttivo, dell’utilitarismo formativo, del moralismo zelante, perviene anche il collezionista di rarità antiquate. L’anacronistico infatti si situa all’opposto dell’apologia dell’esistente. Pertanto esso è l’autentico, l’anarchico, il rivoluzionario contrapposto allo status quo, al buonsenso vigente, all’attualità e alla modernità delle mode affermate e proclamate con successo e generale consenso.

Per il vero collezionista l’oggetto raro, introvabile, l’arcaico, non è una merce, un articolo di scambio, ma il luogo in cui riposa il ricordo dell’origine che è tato rimosso.
“Da qui discende – scrive Schiavoni nella sua preziosa postfazione – la quasi programmatica resistenza benjaminiana a ‘crescere’, voler restare dalla parte delle fate e dei bambini anziché da quella dei filistei, degli adulti cresciuti in modo sbagliato”.

Che è un tema classico della migliore letteratura per l’infanzia, ancorché spesso tradotto in forme decadenti, di esangue e malinteso peterpanismo.