La banda di rapinatori di Trapani, così preparava i colpi: "Pronti a sparare se le cose si mettono male"
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Erano pronti a ricorrere alle maniere forti, se le vittime designate avessero opposto resistenza, i componenti della banda specializzata nelle rapine in abitazioni e nei furti ai Bancomat.
Pronti anche a far uso delle armi. Emerge da una inquietante intercettazione. Due componenti del sodalizio, smantellato dai carabinieri di Trapani ed Alcamo, parlano tra di loro, ignorando di essere captati. Uno di loro, Andrea Mottola, deceduto poi in un incidente stradale, dice al complice Pio Cappelli: “Li prendi e ci tiri alle gambe”.
Frase adoperata nel gergo criminale quando bisogna sparare senza uccidere, ma solo per ferire. E nel corso delle perquisizioni, i carabinieri hanno sequestrato una pistola. Ma la banda disponeva anche di sofisticate apparecchiature, come ricetrasmittenti e un rilevatore di microspie, quest'ultimo procurato da Pio Cappelli. “E' costato 1700 euro”, dice al cognato, avvocato Alberto Mazzeo. E il legale gli fa subito una richiesta: “Portalo nel mio studio”. Evidentemente Mazzeo temeva la presenza di “cimici”, chiedendo al cognato di eseguire una bonifica. “Studio, macchina e abitazione”, lo rassicura Cappelli. Alberto Mazzeo, oltre ad essere il cognato di Pio Cappelli, è anche il difensore di fiducia di un altro indagato: Pietro Tranchida. E che la banda disponesse di armi emerge anche dalla rapina perpetrata nella villa dei coniugi Salone, di via Europa, alle pendici di Erice. L'assalto venne messo a segno nel gennaio del 2019. Ad entrare in azione, Pietro Tranchida, Baldassare Grassa, Pio Cappelli, Giuseppe Culcasi, Ivan Randazzo, Andrea Mottola e Francesco Cammareri detto Ciccio u Pummaroro. Quest'ultimo, alcuni mesi dopo il “colpo” venne arrestato dalla polizia e condannato, lo scorso mese di settembre, a 14 anni di reclusione. I banditi fecero irruzione nell'appartamento nottetempo. I coniugi, entrambi medici e genitori dell'ex consigliere comunale Francesco Salone, sono stati svegliati dai rumori. I malviventi bloccarono Paola Maltese, ginecologa al Sant'Antonio Abate, legandola con delle fascette e narcotizzandola. Poi puntarono la pistola contro il marito Renato Salone, ex chirurgo in pensione, intimandogli di aprire la cassaforte. Il medico disse loro che la chiave era custodita in una cassetta di sicurezza, ma i rapinatori riuscirono a fuggire con la cassaforte dopo averla scardinata.
Rapine e furti, ma gli investigatori non escludono che la banda stesse puntando ad altre attività criminali per allargare il giro d'affari.
Durante una intercettazione i componenti infatti parlano di qualcosa – stupefacenti, il sospetto dei carabinieri – rimasto bloccato in Tunisia, che avevano difficoltà a fare arrivare a destinazione. Discutevano, quindi, sulla possibilità di andarlo a prendere loro, utilizzando un gommone nella disponibilità del fratello di Mottola. Idea, tuttavia, naufragata.
I “colpi” venivano studiati nei minimi dettagli. Niente era lasciato al caso. Da “professionisti del crimine” i componenti della banda pianificavano ogni loro azione. Eseguivano sopralluoghi nelle ville da assaltare e nei bancomat da saccheggiare. Pedinavano le vittime designate di cui conoscevano ogni spostamento, le abitudini e persino le frequentazioni. Da una intercettazione emerge il malumore di un indagato nei confronti di Andrea Mottola. Era andato in palestra, trascurando il compito che gli era stato assegnato. Dubbi anche sulla sua fidanzata: “Se litigano, lei racconta tutto”.
Gli indagati temevano i posti di blocco delle forze dell'ordine - “se ci fermano siamo fottuti” - e per aggirarli studiavano i percorsi da compiere in auto, scegliendo le strade sprovviste di telecamere di videosorveglianza.
Non utilizzavano mai una sola macchina. Avevano, infatti, quasi sempre un mezzo di appoggio. E nel corso di una conversazione tra di loro emerge un particolare inquietante: erano pronti a far fuoco qualora si fossero imbattuti in un posto di blocco. Bastava poi un niente per insospettirli. Una rapina in una abitazione è stata annullata perchè la banda giunta a destinazione – dopo aver concordato di raggiungere a piedi l'appartamento e con il volto coperto – ha notato la presenza di un faro che nel corso dei sopralluoghi non c'era. Temevano che i proprietari, avvisati da qualcuno, avessero montato un “gatto”, ossia una telecamera. Così i malviventi decidevano di tornare indietro per eseguire il giorno successivo un altro sopralluogo. Compito affidato a Mottola che per eseguire i controlli utilizzava una moto.
Durante il rientro, i componenti della banda si chiedevano se la circostanza di essere stati fermati dai carabinieri alcuni giorni prima, potesse avere un legame con le loro azioni. “Erano minchioni a fermarci”, rassicura Mottola, sottolineando che se i militari dell'Arma fossero a conoscenza del loro piano criminoso di certo non li avrebbero fermati. Una tesi, la sua, condivisa da Cappelli. Sembra poi che la banda cercasse nuovi complici. Emerge da una intercettazione. Mottola, infatti, attraverso un messaggio vocale parla con un soggetto, uno straniero, prospettandogli di “andare a fare una bella rapina”. Il suo interlocutore si mostra scettico, ma disponibile. “Domani vediamo, domani vediamo, anche se la vedo brutta...brutta”.
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