L'ex vescovo di Trapani, Francesco Miccichè, in tre anni - come riporta Repubblica - si sarebbe appropriato di circa due milioni di euro provenienti dall'8 per mille destinato dal Vaticano alla diocesi siciliana. La Procura sarebbe ora in procinto di chiudere l'indagine, accusandolo di appropriazione indebita, malversazione, diffamazione e calunnia nei confronti del suo ex economo, don Antonino Treppiedi, verso il quale aveva cercato di stornare i sospetti per un misterioso ammanco nelle casse della Curia.
L'ipotesi dei pm coordinati dal procuratore Marcello Viola trova conferma nei riscontri della Guardia di finanza che, seguendo il fiume di denaro uscito dai conti ufficiali dell’8 per mille della Curia trapanese, è riuscita a ricostruire un groviglio di bonifici, giroconti e false fatture che avrebbero consentito all’alto prelato di impossessarsi di grosse somme che avrebbe investito nell’acquisto di appartamenti e ville, a cominciare da quella mastodontica ( in parte adibita a bed and breakfast) di Monreale nella quale è andato a vivere insieme alla sorella e al cognato dopo la sua rimozione dall’incarico decisa da papa Francesco in seguito all’apertura dell’indagine nei suoi confronti.
Interessi personali che hanno portato alla definitiva scomparsa di vari progetti, come quello per la riabilitazione dei detenuti e della struttura di assistenza ai disabili mentali. Sparito anche il sostegno della Caritas da 100mila euro all’anno per l’attività delle parrocchie e il contributo da 70 mila euro al centro di accoglienza per migranti di Badia Grande. Ad aggravare la sua situazione, un conto di circa 400 mila euro intestato a suo nome presso lo Ior, come scoperto dai pm. Nel tentativo di salvarsi, Miccichè avrebbe chiesto in prima persona a papa Francesco la possibilità di ottenere un incarico e la cittadinanza vaticana per sottrarsi così alla giurisdizione italiana. Ma la Santa Sede non ha risposto. Scrive ancora Alessandra Ziniti su Repubblica:
Grazie ai fondi dell’8 per mille, è l’ipotesi accusatoria forte ora dei riscontri della Guardia di finanza che ha seguito il percorso di bonifici partiti dai conti ufficiali della Curia, passati in parte da due ditte edili che avrebbero emesso false fatture per lavori mai svolti pagando poi mazzette in contanti al vescovo o a suoi presunti prestanome, persone che – nonostante risultino come destinatari di quei soldi – non hanno mai avuto alcun rapporto con la Curia. A fronte di questo vorticoso giro di denaro, le verifiche dei pm hanno riscontrato come buona parte delle attività che avrebbero dovuto essere attuate con i fondi dell’8 per mille, così come previsto dai rendiconti ufficiali, non siano mai state effettuate.
Ipotesi confermata dalla pronuncia della seconda sezione penale della Cassazione, che ha confermato il sequestro di opere d’arte, quadri, crocifissi di valore e gioielli per quasi due milioni di euro trovati nella villa del vescovo e provenienti da diverse chiese di Trapani, e dalle dichiarazioni del direttore della Caritas Sergio Librizzi, per anni suo complice.
In cambio del silenzio sui suoi “rapporti vietati” con i giovani extracomunitari che obbligava a prestazioni sessuali per una buona parola nell’iter di concessione del permesso di soggiorno, don Librizzi aveva acconsentito a firmare al suo vescovo false attestazioni sull’impiego effettivo dei fondi dell’8 per mille.