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In mostra "Maestri milanesi a Gibellina - 7 x 5"

Palazzo Comunale - Gibellina 91024 Gibellina
02/09/2016 - 29/09/2016

Dal 2 al 28 settembre presso il Palazzo Comunale di Gibellina si terrà “Maestri milanesi a Gibellina – Sette per cinque” - nell’intenzione dell’Amministrazione Comunale e dei sette artisti che, su invito di Scimeca, hanno aderito al progetto - vuole essere una rassegna che racconti ai visitatori i fermenti di ricerca che attraversano Milano. Una città da molti riconosciuta come la più all’avanguardia nel panorama culturale ed artistico italiano, grazie alle numerose manifestazioni che in essa hanno luogo durante l’intero corso dell’anno. Da tempo infatti si conferma come una delle metropoli internazionali intellettualmente più vivaci. Il programma di eventi che qui si realizzano, nei Musei, nelle Gallerie, al MiArt, allarga l’orizzonte sulla creatività contemporanea, su ciò che è ancora “innovativo”, permettendo un continuo dialogo fra gli artisti, spesso di diverse generazioni, provenienze e appartenenze. Qui è possibile prendere visione del meglio della ricerca artistica attuale, del design, partecipare ed intervenire a conferenze e conversazioni che pongono a confronto critici, curatori, artisti, direttori di musei fra i più noti ed importanti. Nino Attinà, Michele Cannaò, Giuseppe Donnaloia, Alfredo Mazzotta, Filippo Scimeca, Enzo Togo e Tiziana Vanetti vivono quotidianamente questa realtà, si raffrontano con numerosi colleghi, dialogano, frequentano gli ambienti dove è possibile uscire dall’isolamento solipsistico del proprio studio per commisurarsi con sempre nuovi stimoli. Il che non significa accettarli supinamente, ma elaborarli, metterli in discussione, porre sotto la lente di ingrandimento il proprio lavoro per comprendere se la direzione presa possa ancora avere un senso ed un respiro. Il saluto al futuro che le “Avanguardie” hanno lasciato in eredità non deve risuonare ambiguo e scontato, ma essere analizzato con criticità come monito che inviti a riflettere sul significato dell’essere artista.
I sette protagonisti (alcuni dei quali hanno natali siciliani, pur vivendo da decenni nel capoluogo lombardo), legati in primis da un sodalizio amicale, ancor prima che artistico, lavorano sovente insieme, partecipando a mostre e misurandosi con temi che cercano di declinare mantenendo sempre ognuno le proprie peculiarità ed originalità espressive. Anche in occasione di questa esposizione (in cui espongono ciascuno cinque opere) dimostrano come – trascorsi ormai tre lustri dall’inizio del terzo millennio – sia comunque possibile dipingere senza smarrire un pensiero forte, senza confondersi nel panorama liquido delle provocazioni e dei bluff che troppo sovente disorientano il pubblico e nuocciono al concetto che i più hanno dell’ arte odierna.
Vivono il mestiere, il fare pittura o scultura, con una volontà di rimanere legati alla dimensione rinascimentale che il nostro paese ha saputo tramandare e sovente conservare. L’artista è un “maître à penser”, ma è soprattutto un artigiano, che non può dimenticare che il proprio mestiere comporti anche una necessità di affrontare la materialità dell’atto creativo.
Al secolo appena conclusosi dobbiamo la grande lezione che ha dimostrato come l’arte non abbia unico linguaggio; ne ha molteplici, ed ognuno di essi genera una propria complessità, delle proprie regole.
Non esiste un canone unico, prestabilito, che possa per sempre essere dato e giudicato migliore di altri. Realizzata l'emancipazione dell'arte da ogni aspirazione alla rappresentazione, essa diventa “creazione” della realtà, non raffigurazione di essa.
Questo non toglie che essa continui ad essere, oltre che indagine spirituale, anche conoscenza, pratica quotidiana, mestiere. Non ci si improvvisa, pur dotati, artisti. Il percorso di sperimentazione che si intraprende al fine di trovare una propria individualità e caratterizzazione espressiva non è mai eludibile.
Ecco il messaggio che i nostri maestri consegnano a Gibellina.
Antonio Attinà presenta una serie di figure collocate sia in interni che in esterni. Figure schizzate, abbozzate con un segno rapido e deciso, senza insicurezze. La realtà è ancora assolutamente riconoscibile, ma nel medesimo tempo l’iconografia pare secondaria rispetto alla ricerca di una libertà espressiva la quale aspira soprattutto ad una ricerca formale che possa arrivare ad un racconto quasi surreale; il quadro prende vigore nelle accensioni cromatiche e negli slanci gestuali anarchici che non possono non rimandare alla lezione dell’informale.
Michele Cannaò è da tempo approdato ad un linguaggio frutto della sperimentazione di differenti tecniche, dalla lezione informale all’amore per il segno, derivante dall’esperienza incisoria.
Nel proprio dipingere l’artista conserva però sempre, anche nelle opere apparentemente più distanti dalla mimesi, un’eco del reale, alla quale dobbiamo la liricità che si crea nell’accostarsi al vero attraverso la percezione indefinita dell’apparenza delle cose.
Anche la pittura di Cannaò non si alimenta di un’ arida ribellione all’oggettività. Come testimoniano le opere presentate, Michele cerca di celebrare la forza esplosiva della natura, quella natura ricca e selvaggia dei paesaggi mediterranei. Esalta la veemente vivacità di certi paesaggi, le tensioni di cui sono intrisi, incuneandosi nei loro impenetrabili recessi, attraverso la sua fitta trama segnica, che talvolta ricorda Mark Tobey. Le sue opere sono animate da un dinamismo fitto di segni e forme che alludono all’ oggettività organica della natura, a misteriose presenze embrionali, matamorfiche, proiettate in una visione intima, quasi affiorante dal sogno.
Giuseppe Donnaloia ci immerge in una sorta di realtà silente, quasi mistica. Pur arrivando da esperienze che lo videro legato al neo-espressionismo tedesco, quindi ad una pittura piuttosto enfatica ed impetuosa, ha poi trovato una propria dimensione che cerca di riportare il frastuono del quotidiano ad una misura e ad una pacatezza che si concreta in una quieta stesura del colore, in campiture ampie e quasi piatte. I suoi lavori affrescano atmosfere profondamente liriche; sembrano quasi istantanee sfuocate di un tempo che non c’è più, di un attimo colto e poi immediatamente fuggito. Molto sovente la figurazione si dissolve in una ricerca formale che aspira alla sintesi, introducendo nell’opera stilemi tipici dell’astrazione.
Alfredo Mazzotta, scultore, ha negli anni cercato di arrivare ad un linguaggio plastico, sia nella pittura che nel disegno, che fa della pulizia formale la propria cifra caratteristica. L’artista va snellendo le forme, desiderando imprimere alla materia un andamento sinuoso, morbido. Non rinnegando mai la lezione della classicità, ma nel medesimo tempo conquistato dalla capacità di sintesi raggiunta da scultori come Arp, Brancusi, Moore, riepiloga in ogni opera i molteplici elementi particolari in una forma il più possibile pura ed oggettivata. Affascinato dalla sfera, dall’ovale, che – come egli stesso dichiara – celano in sé la genesi ed il germe della vita, contenendola come il ventre di una madre, arriva a dar vita all’emblema della figura in contorsione. Una figura femminile molto stilizzata, declinata in differenti posizioni, quasi sempre chiusa su se stessa circolarmente, agile, snella, elegante, metafora della “grande madre”, progenitrice del singolo come dell’intero universo, forza che, rinnovandosi, dona la vita.
Le sculture, come i disegni - sovente ad essa preparatori - di Mazzotta propongono, in un incredibile varietà di materiali (il bronzo, la pietra leccese e di Vicenza, il legno, il gesso, la cera e la vetroresina), una forma femminile completamente rivisitata, ricostituita, con una flessuosità e dei volumi che hanno trovato la sintesi della sua personale tensione, che è poi quella dell’uomo contemporaneo, fra limite e apertura, fra razionalità e desiderio di evasione e nuove dimensioni.
Filippo Scimeca, scultore e pittore, da tempo è giunto all’ideazione di opere che sottendono, in primis, un concetto filosofico e cosmologico. Pare infatti raccontare quanto ci circonda secondo figure geometriche archetipiche. Linee rette, linee curve si intersecano a quadrati, rettangoli, ovali, combinandosi secondo prospettive e moduli sempre differenti e nuovi, nel tentativo però di epurare la superficie da ogni ridondanza o dettaglio non essenziale, per regalare l’immagine di un universo perfetto nei propri rapporti e nel proprio impianto. Un universo assolutamente razionale, che nulla concede all’imperfezione. Ma Scimeca lo sa animare attraverso il colore, perché la perfezione, priva di emozione, rimarrebbe sorda utopia e asettica riproduzione di un’idealità che non potrebbe sussistere senza il genio creativo umano. I suoi colori puri, queste tinte piatte, i blu, i rossi, i gialli, i bianchi, gli azzurri, l’indaco – pur colori primari – ricordano, come quelli per esempio di Attinà e Togo, le tinte della terra del sud. La soggettività dell’impressione che il colore regala si compenetra alla purezza e perfezione delle forme composte armonicamente, non dimenticando il rigore dei rapporti matematico-geometrici.
Dall’accostamento di questi due elementi affiora la passionalità di un animo che, pur amando la disciplina, non può dimenticare che la razionalità ha sempre bisogno del proprio opposto per poter vivere e sussistere. Nelle opere di Scimeca riusciamo perciò a leggere la suggestione del sorgere del sole, della una luna piena e gialla nella notte blu, del rosso di un tramonto sull’azzurro del mare. Senza di esse verrebbe meno ogni pregnanza dell’opera d’arte.
Tiziana Vanetti è da qualche tempo approdata ad una pittura che cerca di restituire allo spettatore la voce di un mondo che ha eternato nella magica sfera di un tempo interiore e della memoria. Lo racconta attraverso tinte sempre più parche, ormai vicine al “bianco e nero”, con una stile più libero, gestuale, sciolto. Si è spinta così verso una figurazione che ormai si sposta al di là del dato reale, regalando piuttosto l’ indefinitezza suggestiva . che non si risolve nel semplice dettaglio naturalistico, ma nel racconto di un volto momentaneo della natura. La pressione formale non può che attenuarsi e lasciare spazio ad un affresco del vero quasi spleenetico, dipingendo l’elegia di certe atmosfere. Ogni elemento è ancora certamente riconoscibile, ma diventa quasi un rifugio immaginativo, scaturito dal dialogo tra percezione ed emozione.
Ecco che il modus operandi, la tecnica pittorica utilizzata sono ormai prossimi allo statuto informale; si nutrono di pennellate libere, gestuali, di segni, di incisioni, di dripping. La tessitura cromatica è calda e pastosa e vibra, pur nei colori un poco cupi, di una luce diffusa che filtra nella vita a rischiarare anche ciò che pare in penombra.
Enzo Togo presenta i suoi paesaggi mediterranei, in cui il sole ed il mare della sua Sicilia brillano di una luce abbacinante. I colori sono esplosioni di vita ed energia, quella che non può che giungere dal sole e dal mare, dalla terra arsa ma generosa.
La figurazione di Togo non è immediatamente leggibile. La realtà è raccontata liberamente, scomposta e ricomposta quasi fosse un paesaggio mentale che anela ad inverarsi. I diversi piani dell’opera vengono concepiti in un’impalcatura del disegno che ricorda in parte la scomposizione cubista. Dettagli evidenti (case, barche, palme, il sole, l’acqua), dipinti con veemenza espressionistica, raccontano l’emozione e l’impatto emotivo che ancora arriva all’artista dalle proprie origini, anche nella penombra grigia del suo studio milanese nelle brumose giornate invernali. La veemenza e le’energia che Togo serba in sé si percepiscono nel suo dipingere in modo gestuale, istintivo, immediato. Ecco perché possiamo affermare che i suoi sono paesaggi dell’anima. L’artista ha l’abilità di rivelarceli nelle più intime sfumature, “quelle della veemenza dei gialli accesi di un meriggio, come negli arancioni e nei rossi caldi di un tramonto, piuttosto che negli azzurri distesi di un mare calmo o nei blu intensi e scuri di acque burrascose”, per citare una mia precedente presentazione.
 

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