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16/01/2013 19:17:13

Riina,il covo e la trattativa

Alla rotonda del Motel Agip tirarono fuori dall’auto il passeggero, gli misero una coperta sulla faccia e lo caricarono su una delle loro auto civetta. Erano le nove del mattino, c’era il traffico di tutti i giorni a quell’ora. E fu per quello che la squadra di Crimor, il gruppo del Ros calato da Milano a occuparsi dell’affare Riina, decise di intervenire in quel preciso istante.
Nessuno, in questi venti anni, a parte Ultimo, ha potuto raccontare quella fulminea operazione tra le auto incolonnate a ridosso della circonvallazione.
UN’OPERAZIONE che portò il capo di Cosa nostra dagli agi della sua latitanza impunita e indisturbata durata 24 anni e mezzo, alle manette, in posa obbligata al Comando dei carabinieri con la sua giacca marrone sotto alla foto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Nessuno ha mai visto quella scena, se non nelle fiction.
Eppure, e non si può dubitare dell’onore di un ufficiale — il capitano, poi tenente colonnello Sergio De Caprio, nome in codice Ultimo — la cattura, anche per i magistrati che hanno poi indagato sulle molte stranezze che precedettero e seguirono l’arresto di Salvatore Riina, è andata proprio così.
Certo, deve esserci stata una sorprendente concentrazione di omertosi tra gli spettatori di quella curiosa scena alla rotonda del Motel Agip, se in vent’anni neanche per un sussulto di protagonismo tardivo, nessuno si sia fatto vivo per dire: sì io l’ho visto, ho visto come lo hanno tirato fuori, ho visto la coperta e li ho visti ripartire sgommando.
Curioso come in una città che pure ne ha subìte, tacendo, di tutti i colori, nessuno si sia allarmato per quello che sembrava quasi un rapimento.
In via Bernini, davanti al cancello di quell’isola di case lussuose dove c’era la residenza di Riina, alias ragionier Bellomo, e dei suoi eccellenti ospiti, i costruttori Sansone, l’imprenditore di tradizione comunista
Montalbano, il furgone con l’appuntato del Ros che curava l’appostamento rimase fermo fino alle quattro del pomeriggio. Dentro al furgone c’era anche Balduccio Di Maggio, il pentito che si era fatto arrestare a Borgomanero e aveva offerto al comandante dei carabinieri del Piemonte, Francesco Delfino, il piatto forte delle sue conoscenze: l’uomo che si prendeva cura delle necessità quotidiane della famiglia di Riina, della moglie Ninetta Bagarella e dei figli.
Per un difetto di comunicazione con i magistrati, così ha stabilito la sentenza che ha mandato assolto Ultimo e il generale Mario Mori, vicecomandante del Ros, la casa di Riina che fu individuata successivamente non fu mai né perquisita né controllata per 18 giorni, dando modo agli amici del boss di svuotarla mentre moglie e figli del capomafia ricomparivano a Corleone. Svuotarla e imbiancarla, ritinteggiarla, disse anche Govanni Brusca, miope colonnello di quell’esercito sanguinario che doveva codirigere le fasi successive. In realtà non fu imbiancato nulla. Perché alle pareti della villa c’era la boiserie che i carabinieri staccarono in più punti alla ricerca di una cassaforte, trovata vuota, e di un sottoscala nascosto, anche questo ripulito da cima a fondo. Anche a distanza di anni, quando la villa passò ufficialmente con provvedimento di confisca ai carabinieri per destinarla a circolo, rimaneva qualche labile traccia della presenza del clan corleonese, alcuni fogli dei giochi dei figli di Riina, i mobili ammassati al centro del salotto, l’immaginetta della Madonna di Tagliavia, appena dietro la porta d’ingresso.
Sparirono da quello che non era un covo ma un’elegante residenza dall’arredo un po’ pacchiano in pesante noce scuro, le carte di Riina. Il vero tesoro di cui non c’è traccia, la memoria sulla quale riscrivere forse anche queste stesse righe.
Quella mattina, Riina avrebbe dovuto presenziare a un summit che prevedeva una riunione di mammasantissima davanti a un bar di fronte a Città Mercato. Sarebbe stata una retata che non avrebbe lasciato sul campo, libero di agire per altri due anni, Leoluca Bagarella, il cognato di Riina, svelto di pistola più che di cervello, al quale passò lo scettro delle operazioni in campo, mentre Provenzano si preparava ad assumere la direzione strategica dell’organizzazione, forte di una latitanza che si sarebbe conclusa
nel 2006 dopo 43 anni.
A consegnare Riina ai carabinieri, fu insomma Balduccio Di Maggio, ma i carabinieri avevano un altro canale aperto: era Vito Ciancimino. Agganciato tra le due stragi, coinvolto in una trattativa che tutte le parti hanno ammesso, variando tempi e obiettivi.
Per i Carabinieri, Ciancimino era il mezzo per arrivare a Riina. Per il figlio di Ciancimino, Massimo,
era il tramite per un negoziato che prevedeva una tregua tra mafia e Stato. Una lettura che la Procura di Palermo ha poi sostanziato con l’atto d’accusa che rischia di mandare a processo per intelligenza con il nemico chi propose il patto, chi lo sottoscrisse e chi offrì ai boss la contropartita di uno svuotamento delle sezioni speciali destinate al trattamento dei capimafia al carcere duro.
Sullo sfondo resta il perché dell’improvvisa accelerazione del piano di morte per Paolo Borsellino, le reticenze e le amnesie come i ricordi tardivi, di chi di quel negoziato tra Stato e mafia sapeva, mentre il giudice si affannava a ricostruire il perché della morte di Falcone a Palermo e non a Roma e che con le confessioni di Gaspare Mutolo era già arrivato al cuore degli apparati di sicurezza dello Stato che avevano trescato con i boia.
L’ombra lunga di quei misteri, concentrati nella capitolazione del capomafia che portò Cosa nostra all’apogeo della propria forza militare per incassare dividendi risibili dopo tanti investimenti, si allunga ancora sul presente.
Cosa nostra non finì con la cattura di Riina, si chiuse di certo un’epoca e, con la capacità che è propria dell’organizzazione di adattarsi, se ne preparò un’altra. Cosa nostra tornò all’antico, non sparando e continuando a trattare e a mediare. Riprese quello che aveva sempre fatto, condendo la violenza evocata con la rassicurante promessa di una tregua che portò nuovi affari e un nuovo corso di coesistenza. Almeno fino al 2006, fino a quando, dopo aver smantellato una rete di protezione formidabile, dalle strutture investigative alla politica, anche per Provenzano è giunto il tempo delle manette.
Eppure Cosa nostra, fiaccata e ridimensionata, non è finita neppure allora. Perché insieme con la memoria, quelle carte sepolte e introvabili, non quelle artefatte e pasticciate esibite da Ciancimino junior come salvacondotto, costituiscono ancora il perimetro della sua intangibilità.

Enrico Bellavia