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03/05/2013 10:23:32

Costruire il dialogo

Non c’è dubbio circa il fatto che Valdo sia il mio maestro: se così non fosse, va da sé, non sarei valdese. Non obbligo né lei né chicchessia a considerare Valdo un riferimento imprescindibile per la sua condotta di vita e di fede: lo ritengo un discepolo fedele, assai più di quanto non lo sia io, all’insegnamento di Gesù di Nazareth, specie per ciò che attiene alla scelta della povertà (su cui si accese una disputa storica in seno all’ecumene cristiana medievale, disputa cui fa cenno, tra gli altri, anche il romanzo di Eco da me già citato: a tale proposito, sia detto en passant, la pregherei di tenere nella dovuta considerazione sia il valore storico del romanzo che l’indubbia competenza in ambito di storia medievale del suo autore: entrambi, difatti, sono fuori discussione). Poi, va da sé, lungi da me mettere sullo stesso piano Valdo e Gesù: lo stesso Valdo non lo avrebbe certo gradito. Ritengo, più semplicemente, che Valdo, sia pur con tutti i suoi limiti, si mise nel solco tracciato da Gesù e ne visse con coerenza il messaggio d’amore e di speranza che ha quale soggetto i diseredati di questa terra.

Chiedere al Padre, come ha fatto Gesù in più circostanze secondo quanto testimoniano i vangeli canonici, è senza dubbio l’atteggiamento che informa anche la fede di Valdo e quella della chiesa valdese: ciò, però, comporta, dal mio punto di vista, due conseguenze.

Anzitutto, va rimarcato il fatto che Gesù, nel chiedere, si rivolga al Padre, appunto, non ad un’istituzione, con la quale, al contrario, furono molteplici i motivi di dissenso e le occasioni di conflitto: Gesù, difatti, non fu certo un uomo delle istituzioni; di più, non fu nemmeno un sacerdote, bensì (proprio come i pastori e le pastore valdesi) un laico, poco incline all’obbedienza in ambito dogmatico o istituzionale. L’obbedienza al Padre, per lui, significò sovente critica severa all’istituzione religiosa come struttura di potere e al sistema dogmatico come restrizione e persino tradimento del volto misericordioso di Dio che egli, in ciò fedele al messaggio dei profeti d’Israele, annunciava.

In seconda istanza, il fatto che Gesù si sia sempre rivolto al Padre, in vita come in preghiera, suggerisce a chi intenda riflettere nel merito di questa vexata quaestio che il dogma trinitario è tutto fuorché indiscutibile, poiché sancito come tale dai primi concili ecumenici (a Nicea, nel 325 e.v. e, in via considerata più definitiva, a Calcedonia, nel 451 e.v.) e non incontrovertibilmente testimoniato negli scritti canonici neotestamentari: circa questi ultimi, difatti, l’esegesi e l’ermeneutica lasciano la questione aperta; e proprio questa, in definitiva, fu la ragione che determinò il progressivo riemergere della posizione unitariana (ovvero monoteista) in seno all’ecumene cristiana.

Provo anch’io ad essere più chiaro: l’ortodossia trinitaria prevalse non in virtù di ragioni esegetiche, ma per imposizione dogmatica e, quel che è peggio, per decreto imperiale (l’editto di Tessalonica del 380 e.v.), imposto con la violenza. Una lettura non preconcetta del Secondo Testamento, al contrario, lascia aperta la questione relativa alla divinità di Gesù e al modo in cui, eventualmente, essa può essere intesa.

A tale proposito, lei ha asserito il vero: non pochi sono stati coloro i quali hanno definito eretici questi miei ragionamenti: quel che mi sconcerta è che nel XXI secolo si possano ancora definire eretiche delle riflessioni argomentate. Ebbene, credo che tacciare un pensiero fondato e, va da sé, sempre opinabile, di eresia, rappresenti il modo migliore per sottrarsi al dibattito e per considerarlo affrettatamente (ed illusoriamente) concluso. Ho motivo di pensare che, non di rado, sia un’ortodossia autoproclamatasi tale a manifestare un’evidente carenza di argomenti a suffragio delle proprie (anch’esse opinabili) tesi.

Di qui deriva il mio inevitabile dissenso circa il fatto che alcuni dogmi della chiesa siano attribuibili nientemeno che allo stesso Gesù: tesi, mi perdoni, storicamente insostenibile, vangeli alla mano. I dogmi hanno tutti quanti una genesi ecclesiastica: Gesù annunciò un messaggio che, come tale, travalica ogni tentativo di codificazione e chiede, piuttosto, di essere vissuto e realizzato come anticipazione di un Regno di giustizia e di pace. In tal senso le distinzioni dogmatiche mi paiono ben poco rilevanti e credo che siano chiamate a confrontarsi in maniera schietta e serena, senza che nessuna di esse pretenda di avere il monopolio di quella verità che, comunque, le oltrepassa tutte quante.

Sono altresì persuaso, come lei, che la libertà abbia dei limiti: questi, però, sono rappresentati dal diritto inalienabile dell’altro, non dai principi che qualsivoglia istituzione sancisce, non di rado al fine di limitare tale libertà. Oltretutto, le ricordo che qui stiamo parlando di libertà di pensiero che, come è noto, non ha mai ucciso nessuno: cosa che non si può certo affermare per ciò che attiene a quelle istituzioni, religiose e non, che hanno a più riprese ristretto e represso tale libertà.

Anch’io come lei, infine, ringrazio la redazione di questo giornale ed il moderatore di questa rubrica per aver consentito la discussione, sebbene intenda scusarmi con entrambi per aver, sino ad ora, contribuito ben poco a che essa si sviluppasse serenamente.

Sperando che questo mio ultimo intervento consenta di tornare a confrontarci sugli argomenti, con pacatezza e mutuo rispetto, la saluto fraternamente.

Alessandro Esposito – pastore valdese a Trapani e Marsala