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23/06/2013 04:43:40

L’economista e il povero. Dialogo sulla ricchezza, in riva al mare di Lilibeo - 3° parte


Riassunto delle parti precedenti

La scena si svolge al Capo Boeo. Un celebre politico e professore di economia, di passaggio a Marsala, incontra un povero pensionato e tra i due s’intreccia un dialogo. Il povero narra la storia di un periodo travagliato della sua vita. Racconta che un tempo egli aveva un lavoro prestigioso e molto ben pagato, una moglie bellissima e una stupenda casa. Eppure non era felice. Ma un giorno all’improvviso tutto cambiò. In poco tempo perse tutto: moglie, lavoro, casa. Povero e solo, rischiò di cadere nella disperazione. Poi, una mattina, dialogando con se stesso davanti a uno specchio, cominciò a guarire nell’anima, comprendendo che la vera ricchezza si trova al di là dello specchio in cui ci appaiono le realtà materiali della vita. Questo racconto però non convince l’economista, il quale chiede: «Cosa significa andare oltre lo specchio? Forse volete condurmi nel mondo delle favole, come nella storia di Alice nel paese delle meraviglie? Ora davvero non vi seguo più».

 

Parte 3 – L’isola sacra

Il povero sorrise ancora, e sospirò di gioia rivolgendo lo sguardo all’isola di Marettimo, e al sole che ormai, nel suo moto calante, s’avvicinava sempre più alla cresta del suo monte di granito. E all’acuta osservazione dell’economista rispose: «Vedete quell’isola laggiù? Gli antichi greci la chiamavano Hiera, la Sacra. Mi giudichereste pazzo se vi dicessi che essa rappresenta tutto, per me? E ancora più pazzo, se affermassi che questo tutto, in fondo, non è niente? Essa è la mia ricchezza, è il tutto e il niente. È l’immagine del mistero che dà senso a ogni cosa svelandone il non senso. Ma non vi allarmate, non sto giocando con le parole: sono le parole che si prendono gioco di noi! Non lo trovate divertente? Sapete, nel Corano c’è scritto che la nostra vita mortale non è altro che scherzo e gioco: per questo il riso fa così bene al cuore, quando si accende spontaneo dinanzi allo spettacolo farsesco della stupidità e delle vanità umane… Ma ora vi dirò come la incontrai, come conobbi Hiera dopo la mattina in cui gridai davanti a quello specchio».

L’economista contemplò l’isola, senza dire una parola. Poi, fissando il suo sguardo negli occhi del povero, si pose le guance tra le mani come in un gesto di attesa e di angoscia. Con la forza imperiosa della sua anima razionale respingeva, in realtà, l’affiorare imprevisto di una lacrima dal ciglio dei suoi occhi di cristallo celeste.

«Si nasce piangendo, professore, tutti ben lo sappiamo. E delle lacrime mai nessuno dovrebbe vergognarsi, perché ogni goccia del nostro dolore è un gradino della scala di luce che ci fa salire tra le ali degli angeli. Ed io quel giorno piansi, ma di gioia. Uscii dalla casa dell’amico ed ebbi voglia di andare a meditare in un’antica chiesa che si trova lì vicino. A quell’ora il tempio era deserto, e nella penombra, di fronte all’altare, un grande messale aperto m’invitò alla lettura. Il segnalibro rosso era posato sul salmo che dice: “Chi semina nel pianto, raccoglierà nella gioia”. Fui scosso da un brivido profondo, nel pronunciare quelle parole. Voltai la pagina, e mi venne incontro una frase dell’apostolo Paolo: “Tutto posso in Colui che mi dà forza”; ma il testo latino diceva: “Omnia possum in Eo qui me confortat”. Il traduttore aveva reso dunque il verbo “confortat” con “mi dà forza”, e questo mi fece comprendere il significato vero del conforto: la fede non è medicina palliativa, non è dolce oppio che addormenta, morfina per malati terminali, ma è vino gagliardo che inebria, è forza sovrumana che risveglia, guarisce e rende la vita. A quella scoperta, una lacrima di commozione mi rigò il viso. Poi scesero su di me una calma e una serenità mai provate, e uscii dalla chiesa, lasciandomi guidare dai passi tra la folla e i rumori, verso il centro della città. E lungo la strada ricevetti la chiamata di un caro amico, che m’invitava a mettermi in contatto con una persona che aveva qualcosa di importante da dirmi. Telefonai subito a quella persona; mi propose un lavoro, e il giorno dopo ebbe inizio per me una nuova vita».

«Che bella storia, davvero… e riusciste a recuperare in pieno il livello della vostra professione?».

Il povero scoppiò a ridere come un bambino. «Niente affatto, ve l’ho detto: le leggi del mercato mi avevano sbarrato ogni strada in quella direzione. Avrei potuto essere il migliore del mondo, in quella mansione dirigenziale, ma nessuno ormai si sarebbe sognato di ricollocarmi a quelle altezze. No, il nuovo lavoro era completamente diverso, benché vi dovessi applicare comunque le mie conoscenze scientifiche, in particolare quelle fisiche e matematiche. E lo stipendio era così modesto che per alcuni mesi ancora fui costretto a vivere nel pied-à-terre del mio amico, prima di riuscire a mettere insieme la caparra per trasferirmi in un bilocale in affitto».

«Ecco una bella scoperta: voi siete un uomo di scienza? Non l’avrei mai detto! Vi credevo un filosofo, un umanista; vi immaginavo assai bene nel ruolo di top manager culturale in una grande casa editrice».

«E invece sono un ingegnere civile. Vi sorprende la cosa? E vi dirò di più: prima di quella famosa mattina, la mia cultura umanistica era più o meno quella di un perfetto ignorante. Dopo il liceo mi ero dedicato solo ai numeri, ai calcoli del cemento armato, alla meccanica applicata…».

«I numeri… mio Dio, allora voi mi assomigliate… anch’io non penso ad altro che a quelli, confesso. Ma questo ormai l’avete capito fin troppo bene, immagino. Il mio cervello è direttamente collegato con i videoterminali di Wall Street e di Piazza Affari!». E qui il professore si lasciò andare a un sobrio, autoironico risolino.

«Bravo! Sono felice che anche a voi non manchi il senso dell’umorismo. Scherzo e gioco, scherzo e gioco… perfino Maometto amava ridere, e vi fu un filosofo greco, Democrito di Abdera, che a quanto pare passò la vita a sbellicarsi di tutto ciò che vedeva, di tutto ciò che gli esseri umani pensavano e facevano. Loro piangevano? E lui rideva. Gioivano? E lui si sganasciava».

Il professore si ricompose. «Interessante, sì, benché ciò mi sembri un po’ eccessivo… ma allora, per tornare alla vostra storia, che cosa vi spinse a guarire dall’ignoranza? Fu quel messale aperto in chiesa? Furono quel bellissimo versetto dei Salmi e quella frase di San Paolo?».

«Quella fu solo la prima scintilla. Fu come la scossa del defibrillatore che riaccende la vita in un cuore moribondo. Poi accadde un altro miracolo. E fu la svolta che mi condusse in seguito a vivere qui, sulle rive dell’antica Lilibeo».

«Un’altra telefonata imprevista?».

«Sì, ma stavolta fui io a prendere l’iniziativa. Poche settimane dopo l’inizio del nuovo lavoro ebbi l’idea di rimettermi in contatto con un amico di Marsala che non sentivo da tempo: era un anziano professore di filosofia che avevo conosciuto durante una vacanza alle isole Egadi, e che da allora non avevo rivisto mai più. Di lui ricordavo le felici arguzie, la cultura sterminata di cui sapeva far dono senza la minima ombra di saccenteria o di pedanteria ideologica. Era una mente libera, allegra e fantasiosa come quella di un giovane genio innamorato. Gli piaceva narrare delle brevi storie che molto spesso traeva dalle esperienze della sua vita, e la sensazione che avevo nell’ascoltare quei divertenti apologhi era simile a quella di un assetato che sorseggia una bevanda fresca e deliziosa. Un giorno glielo dissi, e lo ringraziai per questo, e lui mi rivelò che nella lingua araba c’è un verbo, rawà, che vuol dire al tempo stesso raccontare e dissetare. E poi aggiunse in tono ispirato: “Meravigliosa coincidenza di significati! Che senso avrebbe, infatti, un racconto che non diverte e non disseta, una parola che non ci toglie di dosso almeno un grammo della nostra infelicità?”. In quel momento pensai che non esiste una differenza sostanziale tra un profeta e un comico; tra chi grida nel deserto, facendoci tremare nello sdegno e nel pentimento, e chi sa estrarre dal fondo della nostra melma tutto il ridicolo di una vita che altro non è che scherzo e gioco».

«Immagino che, di quelle liete parabole, voi ve ne ricordiate almeno alcune. È così?».

«Certo! Le avevo perfino annotate in un quaderno di appunti. Eppure, non so perché, quella che ora mi viene in mente non è una storiella, ma un episodio un po’ diverso. Un giorno l’amico filosofo mi aveva sfidato su un argomento nel quale io, in teoria, avrei dovuto saperne più di lui. Stavamo facendo una gita in barca intorno a Marettimo, insieme alle nostre mogli. Il mare era appena agitato da un leggero scirocco, e indicandomi la distesa infinita delle piccole onde scintillanti lui mi chiese a bruciapelo: “Ma tu credi davvero nell’esistenza della materia?”. Sconcertato, io non seppi cosa rispondergli, ma lo pregai di chiarirmi il suo punto di vista. Lui allora mi disse che la materia, unica certezza di chi ignora o rinnega gli orizzonti metafisici, non è altro che illusione. Disse che i sensi ci ingannano, o meglio, che essi ci lanciano dei messaggi, ma noi non siamo in grado di penetrare il velo del loro insegnamento. La fisica moderna esplora l’atomo, si cala al suo interno per tentare di definirne la costituzione, e illudendosi perfino di scoprirne le origini, ma osservandolo sempre più da vicino si accorge di fatto, senza volerlo ammettere, che il sostrato della materia non è materiale!».

«Si tratta, chiaramente, di un paradosso».

«Anch’io ero di questa idea. Tentai di ribattere parlandogli delle ricerche sul bosone di Higgs, ma lui fece crollare le mie ipotesi scientifiche come castelli di carte. Riuscì a farmi riflettere sul fatto che più si sprofonda nell’atomo e più esso si dissolve, svaporando in vibrazioni di energia quantica, in particelle che sfuggono alla nostra capacità di comprensione reale: sono concetti, entità matematiche, astrazioni e simulazioni teoriche che hanno ben poco a che vedere con ciò che siamo abituati a definire materia. In altre parole: mi fece comprendere che addentrandosi nella materia si finisce per approdare al nulla, e dunque al mistero del soprannaturale. Proprio come sostenevano molti secoli fa gli induisti, quando dicevano che il mondo è l’ombra di Dio. O i buddhisti, come il filosofo indiano Nagarjiuna che ragionando sulla dottrina dell’impermanenza formulava l’idea della vacuità dell’essere. E i mistici medievali come Meister Eckhart e Ibn ‘Arabi, quando affermavano la sostanziale inesistenza della realtà manifestata».

«Dio santo, che pazzia, affermare che la realtà è inconsistente, irreale… voi mi date le vertigini… e sia pure, lasciamo perdere, ma tutto ciò cosa c’entra poi col discorso della ricchezza, dal quale siamo partiti?».

«I mistici non erano pazzi, e nessuno di loro si è mai sognato di negare la materialità delle cose in quanto tale: sapevano bene che un pezzo di pane può colmare il vuoto di uno stomaco e salvare la vita a un affamato; e che una spada può penetrare in quello stesso stomaco e dare la morte. La vacuità di cui parlano i buddhisti non coincide affatto con il vuoto materiale di uno stomaco, o con lo spazio sterminato dell’universo. Solo, quegli illuminati si limitavano a ricordare che tutto ciò è sogno, è un velo di apparenza, e che al di là di quel velo si cela la luce misteriosa di un Principio immateriale, di una Verità superiore. Ma in quanto al nesso con la ricchezza, la vostra osservazione è giusta… che cosa vi posso dire? Forse che, convenendo sul fatto che la materia è pura illusione, dovremmo dedurre che anche il materialismo in tutte le sue forme, in primis l’idolatria del denaro, è un modo di vivere e di pensare assolutamente insensato!». E qui il povero proruppe di nuovo in una risatina infantile, con gli occhi brillanti d’allegria, prima di riprendere un aspetto più serio e proseguire il suo racconto: «Insomma, una sera di luglio telefonai a quel vecchio pazzo professore, e al semplice suono della mia voce lui capì immediatamente che qualcosa di grave doveva essermi accaduto di recente. Gli narrai le mie sventure, e lui reagì all’istante nel suo tipico stile…».

«Raccontandovi un altro dei suoi apologhi deliziosi?».

«Proprio così. E che meraviglia… ma scusate se vi chiedo una cosa, professore: avete mai sentito parlare di Porfirio?».

Un lieve sgomento fece capolino sul volto dell’economista. Confessò: «L’unico che rammento è Porfirio Rubirosa, l’ineguagliabile playboy del bel tempo che fu… uno dei miti di quei beati anni cinquanta in cui il prodotto interno lordo dell’Italia cresceva a ritmo vertiginoso».

Il povero rise stavolta fin quasi alle lacrime. «I vostri progressi comici sono fantastici, professore, grazie! Avete fatto bene a dirmi la verità. Ma sapete, fino a quel giorno, intendo dire fino al momento in cui l’amico filosofo mi narrò quella storia, anch’io rammentavo soltanto il nome del playboy che dopo una vita strepitosa andò ubriaco fradicio a schiantarsi con la sua Ferrari contro un imperturbabile platano del Bois de Boulogne, morendo sul colpo».

«E invece?».

«Il Porfirio in questione era nato nella prima metà del terzo secolo dopo Cristo in un villaggio del Medio Oriente, vicino a Tiro, ed era stato uno dei maggiori filosofi della sua epoca. All’età di trent’anni si era trasferito a Roma, dove era diventato l’allievo prediletto del grande Plotino di Licopoli. Credeva di avere raggiunto la felicità dei sapienti, ma dopo qualche tempo cadde all’improvviso in una crisi esistenziale che si aggravò sempre più, fino a condurlo sull’orlo del suicidio… ma, professore, voi certamente al liceo avrete letto qualcosa delle Operette morali di Leopardi?».

«Ricordo bene il titolo di quel libro, e se non mi sbaglio, vagamente, il dialogo del venditore di almanacchi, che mandava in solluchero il nostro insegnante di italiano... il solito pessimismo leopardiano, ma che c’entra con Porfirio?».

«C’entra, perché uno dei capitoli delle Operette s’intitola appunto “Dialogo di Plotino e di Porfirio”. I due filosofi discutono del suicidio, e Plotino cerca con mille ragioni di estirpare dalla mente del suo allievo l’idea che uccidersi sia un’azione giusta e profittevole».

«E ci riesce?».

«Questo non è chiaro, perché il dialogo si conclude con una lunga perorazione di Plotino, che però non riceve risposta da parte di Porfirio».

«E cosa dice Plotino in sostanza?».

«Anch’egli riconosce che la vita umana sia tessuta essenzialmente di dolore, e che il pensiero del suicidio non si debba giudicare necessariamente come una pura tentazione diabolica; ma infine esorta l’allievo a liberarsene, con queste parole: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”».

«Ricordate queste parole a memoria? È fantastico».

«Ve l’ho già detto, professore: la mia vita non è altro che un esercizio di memoria, in senso spirituale ma anche in senso letterale. Ogni giorno, quando posso, io vengo qui su questo scoglio e leggo, rileggo, e imparo. Fu il mio amico filosofo di Marsala a insegnarmi questa tecnica della felicità».

«Lui ora non c’è più?».

«È morto pochi anni fa, novantenne, lasciandomi in eredità tutti i suoi libri! Migliaia e migliaia di volumi, un tesoro inaudito».

«Che personaggio… ma torniamo a Porfirio, vi prego. Vorrei sapere se nella realtà, nei fatti storici intendo, Plotino cercò davvero di dissuadere l’allievo dai suoi propositi suicidi… o quel dialogo fu solo un’invenzione di Leopardi?».

«Non fu un’invenzione. Plotino salvò realmente Porfirio dalla morte. E inoltre gli diede un bel suggerimento. Egli conosceva un anziano personaggio di alto livello morale, un certo Probo, che da molto tempo dimorava a Lilibeo. E si rendeva conto che l’ambiente corrotto e frastornante di Roma non era certo il più adatto a favorire la guarigione interiore di Porfirio. Perciò gli consigliò di imbarcarsi su una nave e di far vela verso la Sicilia. Scrisse una lettera a Probo e lo pregò di accogliere nella sua dimora Porfirio come il più caro dei suoi figli. E fu così che nell’anno 268 il filosofo malato di malinconia andò a vivere a Lilibeo, dove soggiornò per lungo tempo».

«E guarì davvero?».

«Eccome! Riconquistò la serenità, s’immerse di nuovo negli studi e nella scrittura delle sue opere immortali. E certamente fu anche la vista della lontana Hiera, la Sacra, a infondere nel suo cuore la forza e la gioia necessarie per vivere. Mi piace lasciarmi andare a questa fantasia: mi sembra di vedere Porfirio camminare pensoso e felice su questa riva, inebriandosi al profumo della brezza marina e lanciando sguardi colmi di commozione verso le isole dell’occidente, o a settentrione, verso la sagoma solenne del monte d’Erice, con le sue spiagge “fide e fraterne” cantate da Virgilio nel quinto libro dell’Eneide».

«Questa è la storia che vi raccontò il vostro amico filosofo?».

«Sì, e naturalmente l’apologo aveva il suo scopo ben preciso. Insomma, l’amico, fingendosi scherzosamente una reincarnazione di Probo, m’invitò a passare le vacanze estive a casa sua, a Marsala. Con la promessa che anch’io, come Porfirio, mi sarei liberato per sempre da tutte le tristezze che ancora mi tormentavano il cuore».

«Questo mi stupisce… pensavo che a quel punto voi aveste già riacquistato la serenità».

«Sì, ma non del tutto. Avevo tagliato solo i rami e il tronco dell’albero del dolore, ma le radici erano ancora vive. Non ero più disperato alla luce del sole, ma il rimpianto delle cose perdute si agitava sempre nell’ombra più oscura, tenendo in vita il demone sconfitto dello sconforto. Per quanti sforzi facessi, e per quanto spesso cercassi di rivivere la mattina liberatoria dello specchio e dei versetti biblici, quel tarlo doloroso mi rodeva ancora sordamente, come il pulsare profondo di un’antica ferita. E ogni tanto, soprattutto di notte, nei sogni, nei risvegli angosciosi, piangevo amaramente al ricordo della moglie, della casa, del lavoro prestigioso e del ricco stipendio che ogni mese pioveva sul mio conto bancario come una manna dal cielo».

«Immagino allora che abbiate accolto con entusiasmo l’invito dell’amico».

«Non solo, ma posso assicurarvi che quella fu la decisione che cambiò per sempre la mia vita. Passai da lui una decina di giorni. Dalla sua casa si vedeva il mare, e ogni stanza era piena di libri. C’erano libri perfino in cucina, sopra il frigorifero e sui mobiletti dei bagni. La moglie del filosofo era una donna dolce e cordiale. Sopportava di buon grado quell’invasione cartacea, ed era lei stessa un’accanita lettrice. In quel modesto appartamento erano riusciti a ricavare anche una piccola camera per gli ospiti, ma vi assicuro che mi ci accomodai molto meglio di un re. Quando arrivai, mi aprirono la porta raggianti di gioia. Per prima cosa, lui mi prese sotto braccio e mi portò a passeggio sul lungomare, dicendo che doveva farmi conoscere il Capo Boeo. Aveva superato da un po’ gli ottant’anni, ma il suo passo era quello energico di un sessantenne vigoroso. Non vedeva l’ora di condurmi a quella scoperta, e nei suoi gesti traspariva la contentezza di un bambino. Camminando, mi indicò le isole all’orizzonte e me ne ricordò la storia con alcuni dei suoi racconti preferiti. Quando arrivammo qui, su questi scogli, estrasse da una tasca un esile volumetto giallo, e me lo porse con un gesto colmo di soddisfazione. Era una vecchia edizione italiana della Lettera a Marcella