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10/07/2013 14:20:27

Gesù, il profeta(rifiutato) di Nazareth

Il testo di Isaia letto dal giovane è estremamente denso: parla di un compito chiarissimo, affidato niente meno che da Dio al suo profeta e a quante e quanti intendano raccoglierne l’eredità proseguendone l’annuncio. Ad investire letteralmente il profeta è lo spirito, il soffio di Dio, quella forza che impedisce a chi annuncia di rimanere immobile, nel corpo come nell’animo: il profeta è chiamato a muoversi, a mutare spazio e a cambiare convincimenti che si radicano nella tradizione ripetuta anziché reinterpretata. L’affermazione è toccante e racchiude in sé tutta la corporeità e la pragmaticità del pensiero ebraico: dice Isaia: «Il Signore mi ha unto», con un verbo (chrío) che ha la stessa radice del termine christòs, «messia», che, difatti, significa propriamente «unto». Ma questa espressione condivide l’etimologia con due altri verbi (chráo e chraíno), che significano, rispettivamente, «sfiorare» e «desiderare». La scelta di Dio, non a caso espressa attraverso un soffio che investe con forza e dolcezza, si manifesta in carezze e desiderio: colui, colei a cui viene proposto l’annuncio, viene letteralmente sedotto da Dio (come dice il bellissimo versetto di Geremia 20:7 che, contro ogni convenzione moraleggiante e incline allo scandalo, presenta Dio come irresistibile seduttore, tanto che il profeta non saprà opporre resistenza al fuoco che gli divampa in petto). Il profeta subisce il fascino di Dio, delle sue carezze, del suo desiderio ardente: è questo a muoverlo senza che gli sia possibile opporre resistenza o rifiuto. Scopo di questa seduzione è fare in modo che dal cuore del profeta, intrecciato visceralmente con quello di Dio, trabocchi un annuncio di liberazione, quell’invito costante a spezzare le catene dell’oppressione che è il tratto distintivo del Dio biblico.

La passione non si consuma nel chiuso del rapporto tra i due amanti: il profeta è chiamato a riversarla, non a trattenerla, a darle corpo nell’annuncio di un rivolgimento che, naturalmente, turba i potenti.

Oggi, lo sappiamo bene, l’intimismo è la tendenza prevalente in seno a tutte le chiese di stampo fondamentalista: l’amore di Dio e per Dio è chiamato a consumarsi entro le ristrette pareti di un cuore ripiegato su se stesso, come denunciano chiaramente i testi di canti imperniati su una lode senza respiro e senza spessore, tutta racchiusa nel rapporto morboso che lega Dio a chi lo prega ossessivamente. Isaia, invece, non concede spazio ad un sentimentalismo stucchevole e chiama la passione a concretarsi, a farsi impegno e denuncia e, per questo soltanto, annuncio. Oggi, al contrario, la buona notizia di cui, assai prima di Gesù, aveva parlato Isaia, si è trasformata in strumento per acquietare le coscienze, rimandandole alla prospettiva incerta ma psicologicamente rassicurante di un mondo a venire. Per i profeti d’Israele, invece, il mondo a venire incomincia qui ed ora ed è responsabilità pienamente umana mettervi mano, cooperando attivamente con Dio e con quel sogno che Egli, senza di noi, non vuole realizzare. Una volta spianatogli il sentiero, come annuncia sempre Isaia (40:3), Dio prenderà dimora in quello che, finalmente, gli apparirà come uno spazio gradito in cui piantare la Sua tenda: prima di allora, prima che la giustizia non sia diventata un bene comune e perciò stesso condiviso, non esistono luoghi in cui Dio possa decidere di stabilirsi.

Si tratta, in maniera evidente, della critica frontale al tempio e al suo sistema religioso, imperniato, come ricorda in coro la tradizione profetica d’Israele, sul sacrificio anziché sulla misericordia.

Lo scontro tra la tradizione profetica e quella sacerdotale è una costante delle scritture ebraiche e si propaga sino al tempo di Gesù che, incominciando la sua attività pubblica con una lettura del rotolo di Isaia, si inserisce nel solco di quei profeti che criticano radicalmente il tempio, le sue regole sacrificali, i suoi precetti ferrei che mirano ad escludere gli emarginati e ad asservire le coscienze di un popolo chiamato all’obbedienza cieca. Il profeta è l’immagine del disobbediente, del ribelle per antonomasia: si oppone all’ordine stabilito per obbedire al Dio che l’ha sedotto a suon di carezze e desiderio. Di fronte al freddo sistema delle regole sacerdotali il profeta reagisce con l’impeto di quel sentimento di cui l’istituzione, per sua stessa natura, è incapace: lo scontro, prima ancora che di idee, è di temperamenti.

Lo stesso vale per ciò che qui, in realtà, crea scandalo: non si tratta, come spesso viene sottolineato, della presunta dichiarazione messianica compiuta in questo episodio da Gesù. A questo proposito, il grande biblista argentino Severino Croatto, in uno studio dedicato al nostro passo, dichiarava:

«La dimensione profetica di Gesù, centrale nell’evangelo secondo Luca, è stata oscurata dalla lettura messianica […] Il testo del profeta Isaia (Is 61:1-3) di cui Gesù si appropria (Lc 4:21) ha a che vedere con l’aspetto profetico: è la descrizione di un profeta, non del messia. Questa presentazione di Gesù innesca il conflitto con gli abitanti di Nazareth: e il conflitto è solitamente il risultato dell’azione profetica.

Difatti, anche il detto “nessun profeta è ben accolto nella sua terra”, che figura poco più avanti (v. 24), pone l’accento sulla figura profetica»[1].

Ora, visti gli accenni espliciti che il testo fa all’unzione, si è inclini a interpretare il passo che abbiamo ascoltato nella direzione di un’autocoscienza messianica di Gesù: ovverosia, nell’episodio narrato da Luca Gesù rivela chiaramente di essere a conoscenza del ruolo di cui il Dio di Israele lo ha investito. Pur considerando la plausibilità di questa che rimane, comunque, un’ipotesi, il punto essenziale non è questo: riconoscere Gesù come il cristo non rappresenta il centro della questione, checché ne dicano le chiese nell’impostazione tradizionale della loro predicazione e della loro teologia. Prova ne sia il fatto che, quando Pietro confesserà la propria fede in Gesù come messia promesso ad Israele, dimostrerà di non aver comunque compreso il senso autentico di questa confessione (Marco 8:29-33). Ogni confessione, difatti, è esposta al rischio di rivelarsi puramente formale e, per ciò stesso, non soltanto inefficace, ma persino del tutto «fuori bersaglio». Essenziale, difatti, non è la confessione di Gesù come messia, quanto, piuttosto, il senso in cui Gesù interpretò e volle che fosse interpretata questa espressione. E il senso, in maniera inequivocabile, lo fornisce il passo di Isaia nel solco del quale Gesù condensa il senso di tutta la sua vita e di tutta la sua vocazione. Chi crede in lui, in definitiva, o riconosce nel cristo la prassi e l’annuncio della liberazione degli oppressi o, diversamente, rimane come uno di quei ciechi a cui la vista, in realtà, non viene restituita.

Per di più, ed è la cosa peggiore, si tratta di ciechi convinti di vedere e di vedere così bene da insegnare agli altri come guardare al cristo, come confessarlo. Questa presunzione ha portato all’affermazione di un cristo dal volto uniformato e di una cristologia dall’atteggiamento intransigente nei confronti delle proposte non allineate e sostanzialmente alienante, perché indifferente alla realtà d’ingiustizia in cui il mondo versa e da cui le donne e gli uomini anelano la piena e concreta liberazione.

Gesù afferma di fronte ai suoi concittadini: oggi questa parola che è entrata nelle vostre orecchie ma che stenta a farsi largo nei vostri cuori è stata portata a compimento. Come? Attraverso l’appropriazione e l’attualizzazione dell’eredità profetica, quella stessa di cui io, Gesù, sono figlio e debitore, quella alla cui scuola mi sono formato e alla quale chiamo anche voi a formarvi, quella che non si conforma al potere, che non abbassa la testa, che non si rassegna ma agisce in difesa dei diseredati e delle oppresse. Questo significa essere mie discepole e miei discepoli, questo è il senso autentico, perché impegnativo, del riconoscere in me il cristo. Non una confessione verbale, ma un’adesione concreta, appassionata, provocata dal Dio che accende gli animi e che non cessa di sedurre i suoi profeti con un annuncio di liberazione diretto a quante e quanti giacciono prostrati e sono chiamati a sollevarsi contro il potere che li opprime.

Domenica 7 Luglio 2013 – Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com

 


Severino Croatto, Jesús muere como profeta en Jerusalén, in: RIBLA 44 (2003/1), Quito, Ecuador, pp. 145-158, cit. pp. 145-149 (traduzione dallo spagnolo mia).