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25/07/2013 14:59:34

Eutanasia: l’etica protestante è diversa da ogni altra

Le ragioni principali dei critici dell’eutanasia sono sostanzialmente di due tipi. La prima è una ragione di  tipo filosofico, e riguarda l’effettiva autonomia degli individui che chiedono di morire. La volontà dei malati terminali, dei pazienti affetti da gravi sindromi depressive e dei morenti è spesso soggetta a fluttuazioni e condizionata da fattori ambientali (assistenza inadeguata, mancanza di accompagnamento) e socio-culturali. Faccio tuttavia notare che, se ci si limita a riconoscere che il soggetto che desidera l’eutanasia raramente è autonomo, ci troveremmo di fronte a una forma di paternalismo soft, come definito nel testo sacro della bioetica secolare anglossasone (il celeberrimo Principi di etica biomedica di T. L. Beauchamp e J. F. Childress), che non contesta l’autonomia in via di principio, ma si preoccupa piuttosto che le condizioni dell’autonomia siano soddisfatte e che conduce ad ammettere che, qualora lo fossero, l’atto eutanasico sarebbe lecito. In realtà, spesso il rifiuto dell’eutanasia avviene sulla base di un argomento di tipo differente, che si radica nella storia e nella cultura di una specifica tradizione morale: l’idea secondo cui la libertà cristiana non va pensata come assoluta autodeterminazione, ma come libertà finita, che si realizza come responsabilità di fronte a Dio e al dono della vita ricevuta. In questo senso, la scelta di porre fine attivamente alla propria vita non può mai essere una scelta etica responsabile, ma equivale in sostanza a un atto intrinsecamente immorale, se non peccaminoso, frutto dell’arbitrio di un soggetto che si autocomprende come padrone assoluto della propria esistenza. Tale argomento va tuttavia incontro a due serie obiezioni. La prima riguarda il carattere particolaristico delle tesi qui proposte e la loro incompatibilità con un principio fondamentale di laicità: non si capisce per quale motivo l’eutanasia andrebbe proibita anche per i non credenti e quali siano le ragioni che ne vietano la legalizzazione in una società pluralista. La seconda obiezione riguarda invece la coerenza interna della tesi: non si capisce per quale motivo sia sempre lecito sospendere o non intraprendere un trattamento atto a prolungare la vita, anche nel caso degli stati vegetativi, mentre sia sempre illecita l’eutanasia. La dimostrazione sembra affetta da una lacuna: l’inadeguata, perché non sufficientemente approfondita, trattazione della (supposta) differenza etica tra uccidere e lasciar morire. Tale distinzione, che molta parte dell’etica secolare rifiuterebbe, è molto problematica, ma è  cruciale in una prospettiva protestante, in cui la questione essenziale non è, come nell’etica  cattolico-romana, chi agisce (Dio, attraverso la natura, o l’uomo attraverso un atto di arbitrio  soggettivo), quanto, piuttosto, come si agisce. Qualora la differenza tra azione e omissione non  venga dimostrata convincentemente, ci si contraddice: non è chiaro per quale motivo un’azione  omissiva sia moralmente differente da un atto umano, responsabilmente scelto, che procura la morte  di un paziente che desidera, altrettanto responsabilmente, di morire. Non esistono forse anche atti  omissivi che, in determinati casi, possono essere equiparati a omicidio?
Veniamo ora alla seconda questione. A differenza delle Chiese, la tradizione teologica e bioetica  protestante non è storicamente così univoca nella condanna, se non dell’eutanasia, quantomeno del  suicidio. Basti ricordare, a questo proposito, le riflessioni di Karl Barth (Dogmatica III/4, Cap. 12) e  di Dietrich Bonhoeffer (Etica), i quali, pur partendo da presupposti diversi, sembrano concordare  sul fatto che il suicidio non è un peccato contro la morale, ma semmai un atto di mancanza di fede.
In secondo luogo, entrambi ammettono la possibilità di un caso-limite, vale a dire la possibilità che  non ogni uccisione di sé sia un suicidio, ovvero un atto di disubbidienza al comandamento divino,  ma possa rispondere, in determinate circostanze, a un’obbedienza superiore. Ambedue, infine,  sottolineano che, dal punto di vista umano, è impossibile appurare quando, in una specifica  situazione, la scelta di morire sia riprovevole o eticamente accettabile. Queste posizioni sfumate e  per nulla intransigenti si sono tradotte, nelle riflessioni dei due più importanti teologi protestanti del  dibattito bioetico delle origini, l’episcopaliano Joseph Fletcher (Morals and Medicine, 1954) e il  metodista Paul Ramsey (The Patient as Person, 1970), in una strenua difesa della liceità  dell’eutanasia e del suicidio assistito, nel primo caso, e nell’idea dell’ammissibilità di tale pratica in  determinate circostanze, nel secondo.
E giungiamo in tal modo alla terza questione. Che cosa distingue l’etica protestante dall’etica  secolare? Il modo in cui vengono pensati il fondamento etico e quello giuridico della liceità  dell’eutanasia. Se il rifiuto dei principi assoluti e l’attenzione al contesto rappresentano due  significative differenze dell’etica protestante rispetto a quella cattolico-romana, va chiaramente  detto che il fondamento della liceità della scelta eutanasica non può, in ottica cristiana, essere  rintracciato esclusivamente nel principio assoluto dell’autonomia individuale, comunque essa venga  intesa. L’intento fondamentale delle Chiese cristiane deve rimanere quello di offrire sostegno e  accompagnamento ai morenti e di battersi per un uso adeguato e moderno delle cure palliative.
Questo non vale in assoluto per l’etica secolare che, quantomeno nelle sue espressioni più radicali,  pensa la scelta eutanasica come suprema affermazione della soggettività individuale. La tesi  secondo cui è necessario ridurre al minimo la domanda di eutanasia non è universalmente  condivisa, dal momento che esistono coloro che auspicano, e riterrebbero desiderabile, vivere in una  società in cui ciascuno sceglie il modo e il momento della propria morte. Da un punto di vista  cristiano, al contrario, alla rivendicazione del legittimo, ma non assoluto, principio di  autodeterminazione, occorre affiancare l’idea della riduzione della sofferenza. Di qui un principio di  prudenza che, in nome del rispetto della dignità della vita umana individuale, richieda di stabilire  criteri medici che limitino l’accesso ai programmi di eutanasia e suicidio assistito ai casi in cui la  sofferenza non è più alleviabile con i mezzi a disposizione della scienza, in cui il processo del  morire è ormai irreversibile e il momento del decesso imminente.
Conformemente alla migliore tradizione del protestantesimo storico, insomma, occorre sfuggire alla  tentazione di trovare un principio ultimo, da cui ogni cosa discende, e cercare di attuare un  bilanciamento tra principi diversi. L’eutanasia e il suicidio assistito non sono lo sterco del diavolo,  né un modo per vincere la morte, ma un tentativo, fragile e problematico, di ridurre, in presenza di  situazioni clinicamente definite e nel rispetto della coscienza individuale, la sofferenza di molte  persone, siano esse credenti o non credenti.     Luca Savarino in “Riforma” del 23 luglio 2013
* coordinatore della Commissione bioetica della Tavola valdese