Quantcast
×
 
 
26/05/2019 06:00:00

Piccole patrie e grandi paure

Quasi trent'anni fa mi capitò di incontrare un anziano signore veneziano, testimone di eventi e di realtà già allora travolti dall'oblio. Mi raccontò che ai tempi della sua infanzia v'erano ancora a Venezia dei vecchi, e soprattutto delle vecchie, che non erano mai usciti dai confini del loro sestiere. Se, per esempio, abitavano a Cannaregio, a Santa Croce o a Dorsoduro, poteva darsi che non avessero mai visto la basilica di San Marco, che dalle loro abitazioni distava poche decine di minuti di gondola o di cammino. “Possibile mai?”, gli chiesi. “Certo”, mi rispose. “E la ragione è duplice: prudenza ed economia. Pensavano infatti: se qui nel mio sestiere c'è tutto, perché mai dovrei avventurarmi fino a San Marco? Anche qui abbiamo le nostre chiese per andare a Messa, e le nostre botteghe del pane. A camminare si rischia, e si consumano le suole”.

Ora, facciamo un piccolo conto. Se quel signore aveva allora una settantina d'anni, vuol dire che quell'arcaico mondo di gente allergica all'esplorazione dell'ignoto doveva ancora essere vivo non più di un secolo fa. Cent'anni! E cosa sono cent'anni? Niente. E questo vuol dire solo una cosa: che se noi estendiamo questa considerazione al nostro Paese intero, riusciremo a comprendere meglio le radici del sentimento che oggi tanto ci angoscia: la paura dei fenomeni legati alla globalizzazione. Ponendo mente poi al fatto che se questo accadeva a Venezia – dinamica città di mare, di commerci, patria di Marco Polo! – a maggior ragione doveva certamente accadere nei borghi di campagna e nelle valli alpine. Solo la miseria doveva spingere i nostri antenati sulla via dell'emigrazione. Solo la forza della disperazione poteva strapparli al senso di sicurezza che “il natio borgo” può dare a chiunque, per quanto “selvaggio” possa essere.

È da questo semplice complesso di sentimenti che nasce il radicamento: rifiuto e paura del lontano, del diverso, dell'ignoto. Il piccolo mondo antico, autarchico e prevalentemente rurale, teme come il diavolo l'idea dell'apertura, del superamento dei confini. E tanto più quei confini sono angusti, tanto meglio è. E se arriva uno straniero, lo si guarda come un intruso, una bestia rara. Se poi gli stranieri sono due, dieci, o addirittura mille o decine di migliaia, ecco che allora scatta l'incubo dell'invasione. Il natio borgo selvaggio si sente minacciato. I confini non sono più confini. Il senso di sicurezza va a farsi benedire. E i più insicuri si coalizzano, si confortano tra loro nella riscoperta e nell'esaltazione della loro identità. Identità di borgo, di città, di regione, di nazione. Il meccanismo è sempre lo stesso: per questo non dobbiamo affatto stupirci se, per esempio, un movimento politico X, nato per isolare una piccola regione dal resto di una nazione, possa poi trasformarsi in un movimento Y, che lotta per isolare una nazione dal resto del mondo.
Questa è la causa del furore identitario. Questo è il processo di resistenza di un mondo arcaico che non vuole morire. Come se tutte le vecchiette di Cannaregio si rifiutassero ora risolutamente di allargare il loro orizzonte fino al campanile di San Marco. Giratelo come volete. Ma il senso ultimo e profondo del cosiddetto sovranismo non è altro che questo. Meglio una piccola patria, magari anche piccolissima, che una patria grande, grandissima, troppo grande per essere amata e compresa dalle menti impaurite. Dalle menti rinserrate nel loro disperato tentativo di difesa identitaria. E che non vogliono venire a patti con la realtà irreversibile di un futuro che è già presente da tempo, e che ormai è la sostanza della vita di tutti e in tutto il mondo. Volenti o nolenti, lo dobbiamo comunque accettare. Per farne intelligentemente di necessità virtù.

Selinos