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10/10/2019 07:00:00

"I leoni di Sicilia" di Stefania Auci. La storia dei Florio e del loro riscatto sociale

C'è un urgente istinto biologico alla base delle vicende legate al romanzo “I leoni di Sicilia” di Stefania Auci: il bisogno di cibo che una povera famiglia calabrese deve soddisfare in un ambiente nuovo, ostile, con un lavoro insidioso, nel momento in cui decide di trasferirsi a Palermo, agli inizi dell'Ottocento.

Dall'affitto di un piccolo locale di drogheria, la famiglia è capace di avviare e ampliare attività e profitti, in una ascesa economica rapida ma determinata. Sono proprio loro i leoni che ruggiscono e feriscono, i Florio, i protagonisti delle irrequiete, mai pesanti o prolisse pagine del libro. Da facchini, con le toppe sui pantaloni, si elevano al ceto di imprenditori, pionieri di un nuovo corso economico, in un misto di rivalsa sociale e ambizioni piccolo-borghesi.

Nè manca in loro la presunzione che con i soldi tutto si può, compreso comprare quote di … felicità. L'approfondimento della realtà di quel tempo, accanto all'antagonismo fra una aristocrazia parassitaria e un minuscolo ma intraprendente nucleo di uomini nuovi, non risparmia il passaggio fra i vecchi predoni borbonici e i nuovi di casa Savoia. Sono riconoscibili, in tal modo, gli architravi storici e socio-economici; ma qual è lo strumento per rivisitare luoghi, uomini e cose? Una ricchezza psicologica anima persone distanti e in opposizione fra di loro, mentre l'acuta analisi interiore ne illumina zone d'ombra, ipocrisie, ingordigie.

Se per il rampante Ignazio la vita oscilla fra accumulazione ed espansione, al punto che anche i “quattro pizzi” diventano un di più, ben altro è il rilievo della Portalupi, discorde e antitetica al marito, che la considera un accessorio. La pura convenienza rimane il solo criterio di relazioni, e se gli altri non procurano vantaggi materiali è bene ignorarli. Persone e cose, comunque, godono di una forma letteraria scarna ma sicura, tesa ed incalzante, come si evinse dal romanzo “Florence” della stessa Auci. A prova di coinvolgimento, il lettore si chiede: come si può vivere in quel modo? Cosa rimane di umano in Ignazio? Eppure al fanatico della roba, prigioniero del suo mondo di merci e commerci, l'autrice riserva l'invenzione più sorprendente e più generosa del romanzo: una morte soave, perfino commovente e parallela - per linfa poetica- al protagonista de “La morte felice” di Camus.

Di tanto in tanto si notano schegge dialettali ma, al di là della camillerite, non sono fuori luogo e raggiungono una maggiore vicinanza allo spirito del tempo. Anzi, al vigatese dell'amato empedoclino che spesso polverizza l'italiano, si è in presenza di un modello di lingua felice nella costruzione dei concetti, limpido nelle allusioni, abile nel gioco dei contrasti, indirizzato volutamente a ridurre la distanza fra le cose e i loro nomi. Oltre alla magia delle parole, oltre al piacere delle metafore, oltre alla densa e variegata narrazione, l'infelice ombelico di terra, sospeso fra due continenti, conferma la specifica vocazione affabulatoria della sua gente, rimanendo stabilmente fra la sommità della letteratura del mondo.

Peppe Sciabica