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28/02/2020 07:24:00

I "figli d'arte" della mafia. 59 arresti all'alba in Sicilia

 Importante operazione antimafia in Sicilia: ben 59 le persone arrestate  accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di droga, spaccio, estorsione, detenzione e porto illegale di armi, violenza e minaccia, reati aggravati dal metodo mafioso.

L'operazione si chiama “Dinastia” e ha coinvolto centri come Barcellona, Milazzo, Terme Vigliatore e anche le isole Eolie. L'indagine ha portato all'arresto di affiliati e gregari della cosca barcellonese che negli ultimi anni ha investito massicciamente nel settore del traffico di sostanze stupefacenti per integrare i guadagni illeciti delle estorsioni.

Gli indagati sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione, detenzione e porto illegale di armi, violenza e minaccia, con l’aggravante del metodo mafioso.

I FIGLI D'ARTE. Tra gli arrestati Vincenzo Gullotti, figlio di Giuseppe Gullotti, che per anni è stato al vertice della famiglia mafiosa barcellonese, condannato in via definitiva a trent’anni per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano, e che ha già due lauree sta studiando in cella al 41 bis per avere la terza. C'è anche Nunzio Di Salvo, figlio di Salvatore Di Salvo, che è stato il successore di Gullotti al vertice del gruppo barcellonese. Ma rea i coinvolti ci sono anche tanti giovani, figli di vecchi personaggi di spicchi.

L’operazione rappresenta l’ulteriore sviluppo dell’analisi del territorio tirrenico effettuata in questi anni dalla Procura Distrettuale Antimafia di Messina e dai carabinieri, non soltanto nei confronti della famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto ma anche verso gli altri gruppi sparsi sul territorio.

I rampolli mafiosi, figli di boss detenuti, erano a capo di una struttura criminale che operava con metodo mafioso, nel traffico e nella distribuzione di fiumi di cocaina, hashish e marijuana, nell'area tirrenica della provincia di Messina e nelle isole Eolie, anche rifornendo ulteriori gruppi criminali satelliti, attivi nello spaccio minore.
L'operazione ha fatto luce anche su numerose estorsioni messe a segno da anni da esponenti della famiglia mafiosa a commercianti e imprese del territorio barcellonese.

LE ESTORSIONI. Commercianti, imprenditori, agenzie di pompe funebri, ma anche chi vinceva alle le slot machine finiva nel mirino del racket nel messinese. I clan di Barcellona Pozzo di Gotto chiedevano soldi a tappeto, come emerge dall'indagine della Dda di Messina che ha portato all'arresto di 59 persone. A raccontare i particolari delle attività illegali delle cosche sono diversi pentiti come Carmelo D'Amico, Aurelio Micale e Nunziato Siracusa.

I collaboratori di giustizia hanno riferito che due ragazzi, avevano vinto 500mila euro giocando ad una slot-machine installata nel centro scommesse SNAI di Barcellona Pozzo di Gotto. La vincita aveva suscitato l'interesse dell'organizzazione mafiosa barcellonese che si è subito attivata per chiedere il pizzo sull'incasso, riuscendo a ottenere con le minacce 5mila euro.

LA DROGA. Gli incassi del racket non sono più sufficienti, le vittime delle estorsioni, in difficoltà per la crisi economica, denunciano. Per questo la mafia di Barcellona Pozzo di Gotto è tornata a puntare al vecchio business della droga. Emerge dall'indagine della Dda di Messina e dei carabinieri che oggi ha portato in carcere 59 tra capi, affiliati ed estortori delle cosche di Barcellona Pozzo di Gotto.
A rivelare agli inquirenti il rinnovato interesse della mafia per il traffico di stupefacenti sono diversi pentiti come l'ex mafioso Alessio Alesci. "Con le estorsioni non si guadagnava più- ha raccontato agli investigatori - le persone denunciavano e volevano fare con la droga. C'era la crisi e le persone soldi non ne avevano e si è parlato di prendere la droga. La prendeva uno e valeva per tutti, il ricavato andava a tutti".
Dalle intercettazioni - nei dialoghi gli affiliati usavano un linguaggio in codice per indicare lo stupefacente - emerge che la cosca si riforniva di droga in Calabria dalla 'ndrangheta.