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29/03/2020 09:31:00

"Stare a casa" è il nuovo amen. Teniamo stretta la nostra umanità

 Sono passati ormai diciassette giorni da quando il colore rosso non è più soltanto il colore dall’amore. E cosi, con le tasche pesanti di domande, in pigiama o in tuta, calpestiamo i metri quadrati consentiti e cerchiamo una motivazione accettabile, un senso per cui le nostre vite siano cambiate da un giorno all’altro. “Stai a casa” è il nuovo “Amen”. Ci sforziamo di riadattare le nostre vite alla cosa che potrebbe sembrare la più semplice del mondo: rimanere nel nostro posto sicuro, il luogo in cui ci addormentiamo ogni sera. E va bene così.
Ma tutto il resto? Adesso “tutto il resto” dobbiamo metterlo da parte: amici, relazioni, tavoli lunghi e sedie intorno, con-tatto, tutto. E va bene così.

Il lavoro lo possiamo fare da casa, si chiama smart-working e fa pure molto figo dirlo, peccato che i bambini non fanno più ricreazione negli atri delle scuole, i medici hanno paura del più banale dei raffreddori dei loro pazienti e diventano esperti nei triage telefonici, c’è poi chi si laurea davanti ad un computer che fa le bizze e ci sono anche i nonni che rimangono da soli perché “a rischio”.
E va bene così.

Abbiamo rinunciato agli assiomi della nostra esistenza, perché tutto ciò che individualmente si cerca di essere, lo si diventa davvero dentro una comunità che ci riconosce, e adesso manca la comunità che è fatta di pelle, calore, spazi piccoli e comodissimi, nessuna “linea gialla” fra me e l’altro. E va bene così.

Abbiamo ristretto la nostra zona di confort ogni giorno un po’ di più, e adesso ci sentiamo al sicuro solo qui, nel posto “in cui ci addormentiamo ogni sera”. E NON va bene così.

Ogni comunità deve ricevere un ritorno per aver osservato, giorno dopo giorno, questo distopico “Amen” e non basta il resoconto giornaliero di Borrelli, né tanto meno la saga infinita dei decreti di Conte. Servono voci familiari, che abbiano il nostro stesso accento, per ricordarci ogni giorno che stiamo facendo bene o che potremmo fare di più. Che i risultati dei nostri sacrifici si vedono, Qui e Ora. Siamo italiani, è vero. Ma siamo anche aostani, torinesi, bergamaschi, crotonesi, marsalesi. Abbiamo bisogno di sapere se, superata la soglia del cancello di casa, le persone con cui abbiamo da sempre parlato stanno bene, se l’ospedale della nostra città accoglie nuovi pazienti infetti, se i primi pazienti infetti stanno meglio. Abbiamo semplicemente bisogno di vedere gli effetti dei nostri sacrifici per dargli un senso, e per darci ogni giorno una motivazione più forte per finire una serie tv che non ci piace nemmeno tanto. Non servono soltanto dati statistici che, seppur a singhiozzi, in qualche modo riusciamo ad avere grazie al lavoro delle nostre testate locali. Serve qualcosa di meno esatto dei numeri ma più pregnante negli effetti. Serve una voce vera che ci ricordi che fuori c’è ancora la vita e che ci aspetta lì, dobbiamo imparare ad avere fiducia nella nostra capacità di adattarci, sicuri che domani sarà migliore di oggi; non servono di certo moniti registrati che, dalla eco assordante di strade deserte, ci intimano di stare a casa. Serve ricordare che la caccia all’untore è una soluzione non soltanto demodé, bigotta e completamente inefficace, ma che non è affatto una soluzione. E quindi mi rivolgo al Sindaco della mia città, affinché si impegni a costruire nuovi ponti di senso sopra questi spaventosi abissi di insensatezza. Che provi a ricordare alla sua comunità, ogni giorno, che siamo ANCORA una Comunità.

Tutto questo finirà, torneremo a ciò che era normale pochi, o forse troppi, giorni fa. Adesso però è compito di ognuno di noi, guardiani dei nostri spazi sicuri, provare a rendere questo passaggio meno traumatico e tenere strette le maglie della nostra Umanità.

Forse cosi “Andrà tutto bene”.

Cristiana Sanguedolce



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