Quantcast
×
 
 
30/03/2020 23:30:00

“Restando a casa” ricordo e racconto... il mio dopoguerra

Non avevo compiuto dieci anni quando, dalla collinetta di San Michele Rifugio, ho assistito al bombardamento della città. L’11 maggio 1943 era una splendida giornata e il cielo terso, intorno a mezzogiorno, fu offuscato dalle superfortezze volanti che distrussero la città e provocarono oltre un migliaio di morti. Tra questi ricordo la mia maestra elementare Caterina Zerilli e il mio compagno di quarta, Paolo Rodriquez, mitragliato da incursori americani nella contrada Giardinello.


IL RITORNO ALL’ETA’ DELA PIETRA
Non ricorderò le privazioni di tutti i generi della vita civile: dagli alimenti al vestiario, dai fiammiferi al sapone, alle scarpe. Andavamo a piedi scalzi ed indossavamo indumenti rattoppati più volte. Voglio ricordare soltanto il triplice rapporto con la pietra: la costruzione di un rifugio, l’uso di una macina di pietra e l’accensione del fuoco.
Mio fratello Nicola, l’amico Peppe Marino ed io, esplorando i dintorni della nostra dimora estiva in cerca di un luogo che potesse ripararci dalle schegge, rivolgemmo le nostre attenzioni verso un enorme lastrone di roccia sormontato da un frondoso albero di ulivo selvatico. Quel lastrone di una roccia durissima, tanto dura da far concorrenza alla famosa pietra di Tafalìa, aveva un’estensione di una decina di metri, uno spessore di circa un metro e presentava una parete sotto la quale c’era del terriccio di facile asportazione e scavo.
Fu così che i tre ragazzi, zappa, badile ed attrezzi di fortuna nelle mani, cominciarono il lavoro e dopo una decina di giorni riuscirono a ricavare un rifugio per l’intera famiglia. Non era certamente una caverna ampia ma piuttosto una piccola spelonca in cui rintanarsi ad ogni allarme di incursione aerea.


Fu ancora la pietra la risorsa eccellente per procurarci la farina, considerando che il mulino Sciacca, privo di fonti energetiche, era rimasto inattivo per molto tempo.
Il giovane Giovanni Casano, ingegnoso ed affabile, costruì una macina per triturare il frumento. Era costituita da una pietra dura, di forma circolare, leggermente ed uniformemente scalpellata ed appositamente recintata. Vi si sovrapponeva un’altra pietra con un foro per introdurre il frumento e munita di un asse verticale con appiglio per farla roteare. Le mani di noi ragazzi si procurarono i calli a furia di far girare la pietra superiore per produrre crusca e farina che il crivello avrebbe poi separato. Era invece compito delle donne impastare farina e lievito per il pane da mettere nel forno e il pastone da inserire nella cella del torchio ( l’arbitriu ) per ottenere i vari tagli di pasta da essiccare.


E ricorremmo infine alla pietra focaia per accendere il fuoco, come gli uomini primitivi. Facilmente sui terreni lavorati trovavamo frammenti di selce durissima che, scheggiata in modo tagliente, facevamo impattare con destrezza contro un pezzetto d’ acciaio (l’azzarinu) provocando la scintilla che il cotone asciutto trasformava in fiammella.
Ecco alcuni cimeli dell’epoca: Tessera per l’acquisto del vestiario e la mia tessera di Balilla ( il grado iniziale della gerarchia era Figlio della Lupa).

Elio Piazza