Intercettazioni gravi, e non solo. E' corposo il dossier che la Procura di Palermo ha costruito in questi mesi per portare sul banco d'accusa l'assessore regionale alla sanità della Regione Siciliana, Ruggero Razza, accusato di aver falsificato i dati sul Covid in Sicilia per allontanare le restrizioni. Un'inchiesta che è partita da Trapani e che è arrivata poi a Palermo. Razza, quando le indagini vennero rese pubbliche si era anche dimesso, ma poi Musumeci lo ha voluto nuovamente al suo fianco, tra il malumore dei suoi alleati, che accusano il delfino del presidente di avere una gestione troppo personalistica ed accentrata della sanità siciliana.
Tutto è partito da Alcamo, da un'inchiesta dei Nas sulla regolarità dei tamponi in un laboratorio. Era l'autunno del 2020, i tamponi non erano così diffusi, ed erano pochi i laboratori accreditati (oggi, invece, i tamponi fai da te si trovano anche dal cinese sotto casa ...).
Secondo l'accusa nei giorni drammatici della prima ondata, l’assessorato regionale alla Salutecomunicò a Roma dati falsi sul diffondersi dell’epidemia. Secondo i consulenti della Procura, che hanno esaminato lo storico dei dati, il caos sarebbe durato almeno 37 giorni. Ma va detto che ormai al caos dei dati, da parte della Regione, ci siamo abituati. Ogni giorno, infatti, a causa del boom di contagi, è tutto un susseguirsi di precisazioni, di contagi che valgono per i giorni precedenti, di arrotondamento di vittime e guariti. Vero è che, per quanto riguarda il periodo sotto inchiesta per Razza e co., si era all'inizio della pandemia, i contagi erano pochissimi rispetto ad oggi, e sbagliare diciamo che era più difficile ..
Con Razza sono indagati l’ex dirigente generale del dipartimento regionale per le Attività sanitarie el’Osservatorio epidemiologico, Maria Letizia Di Liberti, e il direttore del Servizio 4 dello stesso Dasoe, Mario Palermo. Gli altri indagati sono Salvatore Cusimano, funzionario regionale; Emilio Madonia, dipendente di una società privata che si occupava della gestione del flusso dei dati sul Covid; Roberto Gambino, dipendente dell’Asp di Palermo distaccato al Dasoe.
Alla dottoressa Di Liberti e Madonia viene anche contestato di avere indotto in errore, trasmettendo dati falsi, il ministero della Salute e l’Istituto superiore di Sanità, che classificarono la Sicilia a rischio basso e non moderato nella settimana dal 14 al 20 dicembre. L’analisi dei dati pandemici comunicati al Ministero della Salute, con quelli estrapolati dalle conversazioni telefoniche intercettate, secondo l'accusa, ha fatto rilevare una evidente “difformità”, a tal punto da far presumere che sia stato indotto in errore il Ministero e l’Istituto Superiore di Sanità nell’adozione delle adeguate misure di contenimento del Coronavirus.
Per Razza " non c’è mai stata una valutazione erronea sulla fascia di collocazione della nostra regione da parte del ministero, come originariamente ipotizzato; nessuna zona rossa è stata rinviata". L’assessore parla di
«alcune discrasie sul form giornaliero che, come mi è sempre stato spiegato, venivano recuperate settimanalmente e che, pertanto, non hanno determinato alcuna incidenza sul quadro epidemiologico».
Ma per la procura quei “recuperi” erano comunque dei falsi.
Ad accusare Razza ci sono le intercettazioni. Il 4 novembre dell’anno scorso, il funzionario Ferdinando Croce chiedeva a Letizia Di Liberti: «Ruggero come ti è sembrato? Come lo hai sentito?». Risposta della dirigente: «Ah, seccato. Mi disse: “Il fallimento della politica, non siamo stati in grado di tutelarci, i negozi che chiudono, se la possono prendere con noi, non siamo riusciti a fare i posti letto”. Ci dissi: “Ma non è vero. Reggiamo perfettamente. Anche se in realtà, non ti dico, oggi è morta una, perché l’ambulanza è arrivata dopo due ore ed è arrivata da Lascari. Qua c’è il magistrato che ha sequestrato le carte... due ore l’ambulanza. Perché sono tutte bloccate nei pronto soccorso”».
C'è poi l'intercettazione di Razza diventata il simbolo dell'inchiesta: «I dati sui decessi spalmiamoli un poco». Razza si è scusato, definendo l’espressione “infelice”.
Gli indagati sostengono di aver "corretto i dati in modo da renderli il più possibile aderenti alla realtà". La procura ritiene diversamente: "Gli indagati hanno in mala fede alterato dati che andavano comunicati così come si presentavano. Quelli che pervenivano non erano infatti dati falsi, ma al più intempestivi. Dalle telefonate intercettate - conclude la procura - non emerge la volontà di correzione volta al perseguimento di una rappresentazione veritiera dei dati, ma solo quella di avere a disposizione un risultato "gradito".