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23/05/2022 06:00:00

Oggi, 23 Maggio, chiedo scusa se parlo di Garibaldi

 Chiedo scusa se parlo di Garibaldi. Ma io, che dovevo fare un editoriale sul trentesimo anniversario della strage di Capaci, mi trovo senza parole.

Perchè quelle che avevo le ho utilizzate tutte, per le tante interviste che ho fatto in questi giorni, e per le domande che mi hanno fatto, e per le risposte che ho dovuto dare, e comunque le cose che avevo da dire sono tutte in un racconto, o quello che è, che ho scritto per i quaderni del Festival 38° Parallelo, che comincia proprio oggi, e mi hanno chiesto di scrivere qualcosa a tema "Utopia", ed io ho parlato di mafia, di stragi, di noi.

E ne hanno fatto anche una lettura pubblica, del racconto, durante la presentazione a Marsala del mio nuovo libro. La trovate qui. 

 

Chiedo scusa se parlo di Garibaldi, oggi, che tutti dovremmo parlare, invece, di memoria, impegno, legalità, di eroi che muoiono e di idee che camminano sulle nostre gambe, sempre più stanche però. E un giorno questa terra sarà sicuramente bellissima, ma, ecco, trenta anni sono trenta anni, passano per tutti, i testimoni diventano reduci, e dunque io ho rivisto le mie aspettative, e vorrei non che questa terra fosse un giorno bellissima ma solamente normale, e magari non "un giorno" (che è come l'orizzonte, più ti avvicini, più quel giorno si allontana) ma magari già domani. 

Chiedo scusa se parlo di Giuseppe Garibaldi e non di Giovanni Falcone, soprattutto ai tanti che sentono l'urgente bisogno di dirci cosa pensano, quanto soffrono, oppure dove erano e cosa facevano il 23 Maggio di trenta anni anni fa. Io ero assessore, io deputato, io in corte d'Assise, io ero appena magistrato, io ero Sindaco ... e penso sempre a tutto questo coraggio postumo, fatto con il culo degli altri, del quale avrei voluto fare a meno in questi anni, e per alcuni di loro anche ai versi di De André (chiedo scusa se non cito Saviano ....):  "Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso tutti coinvolti".

Chiedo scusa se parlo di Garibaldi, ma è quello che faccio nelle scuole, in questi mesi, quando mi chiamano per parlare delle stragi del '92, della lotta alla mafia, di Cosa nostra, eccetera. Mi ritrovo a parlare di Garibaldi. Trenta anni fa cambiava la mia vita, a 15 anni. Ed a scuola entrarono prepotenti i temi della "cultura della legalità", e della lotta alla mafia. Li ho attraversati tutti, quegli anni, prima da alunno, poi da giornalista "antimafia", da scrittore"esperto". Ho cominciato ad incontrare i giovani per parlare di questi temi ormai più di venti anni fa. E ormai quelli che incontro magari sono i figli di quelli che ho conosciuto. E qualcuno me lo dice. E mi fa sentire vecchio, certo, e fuori posto. Perché mi chiedo: dobbiamo educare i giovani alla "cultura della legalità", espressione terribile, ma cambiano le generazioni, noi diciamo sempre le stesse cose. Qualcosa non torna. Con chi parliamo? E di cosa? Se ci ripetiamo da trenta anni lo stesso copione? Se nei giornali oggi riusoneranno le parole di 25 anni fa, come di 20, di 10 anni fa, che sono poi le stesse dal primo anniversario della strage di Capaci in poi?

Ecco perché non parlo di legalità, né di Falcone, Borsellino, Capaci, Messina Denaro, in questi giri qua, ma di Garibaldi. Perchè scopro che, trenta anni dopo, questi ragazzi non sanno, cos'è accaduto del '92, alcuni neanche vogliono sapere, non hanno una memoria condivisa, mischiano tutto, fanno domande imbarazzanti, alle quali cerco di rispondere con pazienza, riannodando i fili. E parlo davanti a sguardi attenti per poco -  non interessa più questa storia -  perchè 30 anni sono un paio di salti generazionali, è come quando a me parlavano di Moro o di Piazza Fontana o della seconda guerra mondiale o, appunto, di Garibaldi. Roba da studiare per essere interrogati, e ciao. 

Ed ecco allora che parlo di Garibaldi, perché sono preoccupato che Giovanni Falcone stia andando verso la sua "garibaldizzazione": marcette, sfilate annuali, statue, vie, piazze e sospetti. Ed allora racconto che Garibaldi, quando prese due navi per organizzare la sua spedizione militare da Genova alla Sicilia, nel 1860, fece una cosa eroica, pazzesca, incredibile. Perchè riuscì a trovare mille volontari, ragazzi di quindici, venti anni, che partirono da Bergamo come dal Piemonte per andare in Sicilia, che per loro era davvero l'altra parte del mondo, e rischiare di morire in una missione suicida, con un solo ideale: l'unità di Italia. E noi non lo capiamo quanto doveva essere grande quell'ideale, perché non ci siamo passati. Quanto grande era la promessa che avevano dentro al cuore? E ora ne parliamo con fare annoiato, come se fosse tutto un po' scontato. E quindi parlo di Garibaldi ma penso a Giovanni Falcone, che nei libri di storia non ci voleva finire, e neanche in museo, o nelle targhe, nelle monete.

Aveva una promessa dentro al cuore. 
E invece sta lentamente, stancamente, scivolando lì. 
 

Giacomo Di Girolamo 



Editoriali | 2024-05-16 06:00:00
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