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30/04/2023 06:00:00

La trattativa Stato-mafia, venti anni di indagini e depistaggi

 Si continua parlare di trattativa sui giornali e i media italiani, dopo la parola fine della sesta sezione dei giudici di Cassazione che ha assolto gli ufficiali del Ros e l’ex senatore Dell’Utri e prescritto Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, i boss rimasti sotto imputazione dopo la morte di Totò Riina.

Per capire o meglio che farci delle altre domande su cosa è stata la “trattativa” che per i giudici in realtà non c’è stata, lo facciamo seguendo un articolo del giornalista Enrico Deaglio su La Stampa che si chiede, innanzitutto: “non è, per caso, che tutto questo ventennale processo cosiddetto della «trattativa stato mafia», si potrebbe configurare come un altro colossale depistaggio? Cioè: non è che si sono inventati questo giocattolo per distoglierci da cose che ci avrebbero fatto paura?” .

Per i giudici il complotto tra Istituzioni, Quirinale, Carabinieri e Cosa Nostra non è mai esistito. E allora si chiede Deaglio il papello, Massimo Ciancimino, il signor Carlo, e le telefonate tra l’ex ministro Mancino e il capo dello Stato Napolitano; il «tritolo che è già arrivato» per il giudice Nino Di Matteo. Che cosa è stato tutto ciò?

Così ricostruisce il giornalista su La Stampa. Uccisi Falcone e Borsellino, con l’esercito in Sicilia e la lira che crolla, bisogna far qualcosa; la polizia trova un colpevole per la strage di via D’Amelio, un ragazzo di quartiere. Nel 2009, il giovane figlio di Vito Ciancimino diventa un «collaboratore di giustizia» e racconta ai pm di Palermo delle enormità che a loro piacciono molto; in cambio chiede solo che gli lascino vivere la sua vita: diventa, come si suol dire, un’icona dell’antimafia. Dunque Massimo racconta che suo padre e i carabinieri del Ros hanno trattato cose ignobili: in cambio dell’arresto di Riina, lo Stato ha accettato di rimettere in libertà dei pericolosissimi boss, ha lasciato libero Provenzano, ha incaricato un certo «signor Carlo» di coordinare criminali e bombe. Borsellino aveva intuito quello che stava succedendo, si era opposto e per questo è stato ucciso. Avete capito bene: dallo Statomafia. C’è anche una prova della trattativa, un «papello», un elenco, scritto a mano da Riina proprio, con le richieste di Cosa Nostra allo Stato. Viene prodotto il papello, sembra vero, è scritto a mano, contiene dodici punti; in pratica Cosa Nostra chiede la revisione del maxi processo, di avere indietro i suoi soldi, di fare una nuova legge sui pentiti, di abolire le carceri speciali. Ma quello che colpisce è il dodicesimo punto: Riina chiede «la defiscalizzazione della benzina in Sicilia (come ad Aosta)». Ecco, secondo me, chi si è inventato il dodicesimo punto è un genio, un vero statista. Peccato, però, che il papello sia falso. È fasullo anche il signor Carlo. Massimo dice che suo padre gli aveva detto chi era, anzi che l’aveva proprio scritto e messo in cassaforte. Lo trova, il nome è quello del capo della DIA Gianni De Gennaro, però scritto da Massimo con i trasferelli. Viene denunciato per calunnia, ma i pm non perdono fiducia in lui.

Capitolo Mancino – Deaglio ricorda la vicenda di Mancino intercettazioni (prorogate dal Gip ogni quindici giorni) durano sei mesi e si scopre che Mancino il Chiaccherone ha telefonato 9225 volte per un totale 41mila 827 minuti, senza dire niente di rilevante. Ma ci sono anche 19 minuti complessivi (quattro telefonate) in cui parla con il presidente Napolitano – suo vecchio amico - in occasione del Natale e di Capodanno. Siccome non siamo in Paraguay e da noi non si può intercettare il Presidente, il Quirinale ordina la distruzione dei nastri registrati. E qui parte una folata di follia tutta italiana. Si sparge come il vento nel deserto la voce che in quei diciotto minuti ci sia la prova che il presidente abbia dato l’ordine di uccidere, o qualcosa del genere; un segreto innominabile. Di Pietro: «Io spiccherei un mandato di cattura», Beppe Grillo lo paragona al Padrino, Il Fatto Quotidiano raccoglie in pochi giorni 150.000 firme a sostegno della procura di Palermo e nel settembre 2012 in una cerimonia pubblica dal sapore mistico le consegna ad Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e all’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli in un clima di grande emozione resistenziale e costituzionale. Il comportamento di Napolitano è la prova – secondo IlFatto – che la trattativa c’era davvero stata.
Poi si apprende – continua Deaglio -, che tutta l’indagine sull’omicidio Borsellino era stata depistata fin dall’inizio, per proteggere i veri colpevoli. Che anche l’arresto di Riina non era andato come ce lo avevano raccontato. Che i giudici coinvolti in quelle indagini erano gli stessi che poi si erano inventati la «trattativa»; che la procura di Palermo e quella di Caltanissetta avevano - volutamente?- dimenticato di indagare sugli “appalti” e sugli industriali, su clan rimasti nell’ombra come quello dei Graviano, su suicidi eccellenti mai indagati nelle carceri, sui connubi tra ‘ndrangheta, Cosa Nostra e servizi segreti che cambiano tutti gli scenari. Dopo aver ringraziato la Corte Suprema che ha posto fine a questo strazio, Deaglio si chiede: non sarebbe il caso di indagare su chi ha portato avanti, per una ventina d’anni, il processo della trattativa?

E dopo la sentenza della cassazione sulla Trattativa, parla la moglie dell'ex presidente del Senato e ex ministro dell'Interno Nicola Mancino chiamato in causa nel procedimento perché avrebbe mentito ai giudici.Chi ha combattuto, senza termini, la mafia è stato mio marito, Nicola Mancino. Me lo hanno distrutto con accuse infamanti, con dieci anni di bugie. Mio marito è stato il nemico numero uno della mafia, vorrei che fosse chiaro”. Lo dice all’Adnkronos la signora Gianna Di Clemente, moglie di Nicola Mancino, che fu prima indagato e poi imputato nel processo di primo grado per la trattativa tra Stato e mafia, con l’accusa di falsa testimonianza. I pm lo iscrissero nel 2012 nel registro degli indagati dopo un interrogatorio a Palermo. La Procura riteneva che Mancino, il giorno dell’insediamento al Viminale il primo luglio 1992 sapesse della trattativa che prevedeva di cedere al ricatto dei boss in cambio della rinuncia all’aggressione terroristica e ai progetti di uccisione di altri uomini politici. Per i pm palermitani l’ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm avrebbe negato nell’interrogatorio “l’evidenza” per “coprire responsabilità proprie e di altri”. Ma Mancino fu assolto dall’accusa nel processo di primo grado. E i pm non presentarono ricorso. L’assoluzione divenne definitiva. “Nicola Mancino in questo dibattimento è imputato di falsa testimonianza ma sotto il profilo mediatico è diventato l’emblema della trattativa. Per lui tutto questo ha comportato un danno enorme, perché e sempre stato impegnato nella vita politica del Paese, ha avuto un lungo arco di tempo di permanenza in Senato, è stato ministro dell’Interno e presidente del Senato”, aveva detto nel corso della sua arringa difensiva l’avvocata Nicoletta Piergentili, uno dei legali di Mancino.
“Non sta bene, non se la sente di parlare. E’ troppo provato”, dice oggi la moglie, signora Gianna. Che, però, ci tiene a dire: “Guardi, lo ha detto anche il boss Totò Riina in una intercettazione: ‘Mancino è stato il nemico numero uno della mafia’, e questi giudici me lo hanno distrutto mio marito, con dieci anni di bugie e cose inventate, per diventare protagonisti”.
Così continua Gianna Di Clemente all’Adnkronos:Per alcuni Mancino era diventato il capo mafia…”. E ricorda l’incontro, avvenuto il primo luglio del 1992 tra il marito e Paolo Borsellino, che sarebbe stato ucciso tre settimane dopo in via D’Amelio. “Ma secondo lei, mio marito, appena insediato al Viminale come ministro dell’Interno, mandava a chiamare un giudice? Lo hanno messo in croce su questo incontro. Infilato in un tritacarne…”.