“Passa tempo passa ruota, sull’acciaio passa, come notte passa giorno, sull’acciaio lucido”.
Cantava così Ivano Fossati, più di vent’anni fa.
Quanti chilometri su quei treni… Orari, partenze, arrivi, coincidenze. E poi salire, scendere, accompagnare qualcuno, ritornare. Un’intera vita sull’acciaio lucido, un viaggiatore speciale, anche un po’ ferroviere, che di treni ne ha fatti partire tanti. Senza paletta, senza cappello. Si chiamava Lampo. Ed era un cane. Si dice che Ivano Fossati si riferisse proprio a lui quando incise il suo diciassettesimo album, “Lampo viaggiatore”. E quell’acciaio lucido è del terzo brano, “Lampo (sogno di un macchinista ferroviere)”.
Prima di Fossati però, questo cane speciale era stato raccontato in un libro, scritto da Elvio Barlettani nel 1962. Non era uno scrittore Barlettani, ma un vice capostazione, e quello fu l’unico libro che scrisse. E che io ho letto per la prima volta quando avevo 12 anni, più di quarant’anni fa.
Era la narrativa che ci facevano leggere alle medie, all’epoca arrivata già all’ottava edizione, e siccome i miei non buttavano via niente (men che meno i libri), un paio d’anni fa me lo ritrovai per caso tra le mani e mi misi a rileggerlo. Arrivai all’ultima pagina mentre mi trovavo in ospedale per un’angioplastica. Sarà perché quelle sono situazioni in cui le emozioni si moltiplicano, fatto sta che mi ripromisi che una volta uscito da lì, sarei andato a visitare i luoghi che ancora oggi parlano di questo cane prodigioso.
O meglio, “il” luogo: la stazione ferroviaria di Campiglia Marittima, nel livornese. Attenzione, non la città di Campiglia, ottima meta turistica a 15 chilometri da Piombino, ma proprio la sua stazione. Lì, di fronte al primo binario, in un’aiuola, c’è la statua di Lampo. Nel marmo, il cane solleva la zampa, come per salutare i viaggiatori, avendo sotto di sé un cappello e una paletta da capostazione.
La storia ebbe inizio in un giorno d’agosto del 1953, quando il vice capostazione Elvio Barlettani vide qualcosa cadere da un treno merci. “A prima vista era un cane comunissimo, di taglia media, di razza indefinibile, dal pelo lungo e bianco, tappato di marrone sul rossiccio” racconta l’autore. Dopo un po’ si infilò nel suo ufficio, si accucciò e si addormentò. Ci volle poco a capire che non si trattava di un cane qualsiasi perché, dapprima si affezionò al signor Barlettani, poi alla figlia piccola Mirna che andava a lasciare e a riprendere a scuola… usando proprio il treno. Per il resto viaggiava, memorizzando orari e coincidenze, distinguendo le diverse destinazioni, da Livorno a Pisa, perfino a Roma. E ritornando puntualmente a casa, cioè nella sua stazione di Campiglia Marittima.
Ma senza guinzaglio e museruola veniva spesso cacciato dai quei treni dove non bastava nascondersi sotto qualche sedile per non essere beccato dal controllore che lo cacciava via. Lui però scendeva da una carrozza e saliva dall’altra. Ecco perché tentarono di liberarsene per ben due volte, chiudendolo in un vagone merci verso il sud. Ma niente da fare. Dopo centinaia di chilometri riusciva sempre a ritornare alla piccola stazione di Campiglia. E ci ritornava in treno.
Oltre ad essere un viaggiatore era anche un cane ferroviere: dopo essersi accertato che tutti fossero saliti sul treno, saltava su uno dei carrellini porta bagagli, guardava a destra e a sinistra ed abbaiava due volte verso il capostazione, che agitava la paletta e soffiava nel fischietto. Solo allora il convoglio iniziava a muoversi.
È per questo che Lampo diventò famoso. Negli anni ’50 (ma anche dopo), dall’Europa agli Stati Uniti, i giornali e le televisioni raccontarono la sua storia, amato dai ferrovieri di Campiglia e “sopportato” dai controllori delle altre stazioni. Una storia che finì il 22 luglio del 1961. Sul terzo binario. Lampo finì sotto un treno merci in manovra. “Era uno di noi”, dissero sconsolati i ferrovieri con in testa Elvio Barlettani. C’è chi dice che quel treno non doveva trovarsi lì in quel momento, che era fuori orario e che Lampo non l’avesse previsto.
Oggi è sepolto proprio sotto la statua che lo raffigura, nella stazione di Campiglia. Ho avuto finalmente la possibilità di andarci. Ho passeggiato a lungo tra quei binari e ho immaginato tutte quelle scene descritte in quel libro delle medie, letto più di quarant’anni fa.
La stazione, come tante altre in Italia, è praticamente automatizzata. Non c’è più la biglietteria, sostituita dai distributori self-service. Gli uffici del personale sono chiusi, con le tendine abbassate. La fontanella dove Lampo andava ad abbeverarsi non ha più il rubinetto e la vaschetta sotto è stata cementata. Non c’è più il chiosco della vecchia giornalaia. In giro non si vede nemmeno un ferroviere.
Se ci fosse ancora la mia professoressa delle medie, mi chiederebbe di scrivere un pensiero su questa mia esperienza. Io scriverei che non è vero che il tempo cancella tutto, perché dopo settant’anni, Lampo continua ad insegnarci che forse la vita è viaggiare, partire, perdersi. Poi ritrovarsi, abbracciarsi, ripartire, appartenendo a tutti e a nessuno.
E che non è vero che a Campiglia non si vede in giro nemmeno un ferroviere. C’è lui, Lampo. Con quella zampa alzata di fronte al primo binario, vicino alla sua paletta e al suo cappello.
Sembra cantare le parole di Fossati: “Arriverò ai ghiacciai un giorno, anzi una notte, senza corrente elettrica. A fari spenti arriverò con coraggio e poi di nuovo giù, dall’altro pendio del mondo, vedrai che arrivo che farò. Turbine e scintille accese, vedrai che arrivo che farò. E come puntuale di ritorno accanto a te sarò”.
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