Trapani, morire per lavoro. La mamma di Nicolò Giacalone: "Nessuna giustizia"
C’è una foto sempre adornata da fiori fissata al guardrail di una strada senza nome, nella periferia di Custonaci, vicino via Ragusa. È lì per ricordare Nicolò Giacalone, l’ennesima vittima sul lavoro, anzi vittima del lavoro, morto il 20 luglio 2022. Quella mattina Nicolò prende l’autogru dalla sede operativa della Sud Marmi, ditta per cui lavorava, per recarsi a casa del suo datore di lavoro, Vito Pellegrino, presidente di Sicindustria Trapani e titolare dell’azienda, "solito richiedere la manodopera dei suoi operai per lavori privati", come emerge dagli atti dell'inchiesta.
Non arriverà mai alla meta, perché il giovane operaio perde improvvisamente il controllo dell'autogru, invadendo la corsia opposta. Un volo di oltre tre metri non gli dà scampo, rimanendo schiacciato dal mezzo pesante che conduceva.
Il veicolo del 2006, regolarmente revisionato, non era abilitato a transitare su strada. Inoltre, per essere guidato, necessitava di una abilitazione specifica, che Nicolò Giacalone non aveva.
Così come Vincenzo Miceli, responsabile di cantiere della Sud Marmi, che ha patteggiato, anche lui, 16 mesi. Per entrambi, il gup Samuele Corso ha disposto la sospensione della pena.
“Come può intervenire sulla sicurezza sui cantieri, dopo che mio figlio è morto per la loro “imprudenza, imperizia e negligenza”, come riporta la sentenza? – si chiede mamma Donatella – Non ho avuto giustizia, hanno patteggiato e non siamo andati a processo. Il risarcimento? Nulla può restituirmelo. Voglio solo che non si ripeta più una cosa del genere e che il mio Nicolò non sia dimenticato”. E per questo, il sindaco Giacomo Tranchida si è impegnato a dedicare una aiuola a Nicolò.
Il mal lavoro: dire sì per necessità
“Non si può parlare di morte sul lavoro, ma di morte nelle ore lavorative” sussurra la madre che da quella mattina non si dà pace.
“Mio figlio era un gran lavoratore, non diceva mai di “no”, e forse questo gli è costato la vita. Mi dicono: avrebbe potuto rifiutarsi, ma lui era fatto così: non avrebbe mai disobbedito agli ordini del suo titolare – racconta con voce spezzata mamma Donatella -. Quando chiedevo a mio figlio di cambiare mansione, Nicolò rispondeva «Non posso, mamma altrimenti mi lasciano a casa»”.
E Nicolò invece aveva il mutuo da pagare, anche perché si era sposato da soli 7 mesi. Perdere il lavoro era impensabile: aveva bisogno di soldi per la sua famiglia. La sua mansione era “manovale non qualificato delle miniere e delle cave” ed aveva ottenuto anche un attestato di frequenza di “Formazione per lavoratori di aziende a rischio alto”. Lui alla Sud Marmi era assegnato all’imballaggio delle casse. Eppure, in occasione dell’incidente, “risultava impiegato in mansioni estranee per le quali era stato assunto e per le quali era abilitato”.
La stessa moglie, nella sua deposizione, lo definisce “jolly che la ditta utilizzava all’occorrenza per quello che era necessario” e aggiunge “so che mio marito faceva cose che non erano di sua competenza, ma non si lamentava. Lo scorso anno durante la pulizia di un silos è rimasto impantanato all’interno dello stesso con difficoltà ad uscirne”.
"Tutte attività non compatibili con il suo stato di salute - precisa la signora Donatella - Il dottore diceva che Nicolò aveva la “testa di cristallo”. A 18 anni mio figlio è stato operato alla testa per rimuovere una ciste aracnoidea cranica che, se non presa in tempo, poteva causare disturbi neurologici".
Una patologia che poteva ripresentarsi, a meno di alcuni accorgimenti come l’uso di antiepilettici e non praticare nessuna attività indicate anche dal referto del medico del lavoro, dove si legge: “Nicolò Giacalone non può essere abilitato a lavori in altezza, guida mezzi meccanici e/o apparecchiatura per movimentazione carichi” e che deve “evitare attività ad eccessivo impegno psico-fisico”.
Tutte le infrazioni alla sicurezza riscontrate in cantiere
Sono almeno cinque gli articoli del DL 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro, contestate a Vito Pellegrino e Vito Miceli alla base del patteggiamento.
A Vito Pellegrino, si contesta di non essersi preoccupato di valutare i rischi legati all'uso dell'autogru, un mezzo vecchio, non adatto alla circolazione stradale e con problemi di manutenzione (dalle testimonianze il mezzo perdeva olio).
Inoltre, non vigilò affinché l’autogru fosse usata solo da personale abilitato e, nello specifico, consentì a Nicolò, che non aveva la patente per guidare quel tipo di mezzo, alcuna formazione specifica sui rischi della guida. E ancora, non formò Vincenzo Miceli, il quale, pur svolgendo di fatto funzioni di preposto, non era stato formalmente nominato e non aveva ricevuto adeguata formazione.
Il giudice riconosce delle responsabilità anche a Vincenzo Miceli, il quale pur sapendo che Nicolò non era abilitato alla guida, non gli impedì di usare l'autogru e non vigilò sul rispetto delle norme di sicurezza.
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