Porto d’armi, il Tar Sicilia: "no alla revoca per fatti di oltre dieci anni fa"
Vecchi e modesti precedenti di polizia non sono sufficienti a negare il rinnovo del porto d’arma (fucile) per uso caccia. Soprattutto se chi è preposto al rinnovo (polizia), pur nell’ampiezza della sua discrezionalità, non ha effettuato un’adeguata istruttoria attraverso la quale “potere ragionevolmente desumersi la pericolosità dell’interessato o la possibilità di un utilizzo improprio delle armi”.
E’ quanto ha sentenziato la quarta sezione del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, accogliendo il ricorso di un uomo di Pantelleria (ex gestore di un bar-pizzeria-discoteca) al quale, nel 2023, la questura di Trapani ha negato il rinnovo del porto d’armi per andare a caccia.
Ciò sulla base di fatti relativi all’arco temporale tra il 1995 e il 2009, e in particolare una condanna per contravvenzioni, tre informative di reato alla magistratura di Marsala per inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, determinazione in altri dello stato di ubriachezza, spettacoli pubblici senza licenza, otto contestazioni amministrative per violazione di un articolo del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, e infine nel maggio 2022 essere stato notato in compagnia di una persona denunciata per truffa e deturpamento di cose altrui. Fatti “molto risalenti nel tempo”, evidenzia il Tar nella sentenza, che “non consentirebbero di operare una prognosi attuale di
inaffidabilità del richiedente”.
Inoltre, tali precedenti “sono descritti (nella maggior parte dei casi) come segnalazioni (ossia, denunce) all’a.g. il cui esito non risulta essere stato acclarato, pur essendo ormai trascorsi molti anni. Mentre, nel residuo caso, si parla di condanna per reato contravvenzionale, senza che ne venga specificato il titolo giuridico”. Ad assistere il ricorrente sono stati gli avvocati Luigi Pipitone e Maria Cristina Sciuto, del foro di Marsala. “Si tratta di una sentenza importante perché riguarda tanti soggetti” dice l’avvocato Pipitone. Il Tar ha, inoltre, condannato il ministero dell’Interno al pagamento delle “spese di lite”, liquidate in 2 mila euro, oltre oneri e restituzione del contributo unificato.
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