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01/10/2011 11:11:22

Via D'Amelio: fu depistaggio

Due falsi pentiti sono stati usati per sviare le indagini sulla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino. Obiettivo: coprire il boss Giuseppe Graviano, in contatto con i servizi segreti deviati e con settori della politica

(29 settembre 2011)

L attentato al giudice Paolo Borsellino in via D Amelio nel 1992 L'attentato al giudice Paolo Borsellino in via D'Amelio nel 1992Due falsi pentiti, manovrati per depistare le indagini sulla strage di via D'Amelio del 19 luglio 1992. Due collaboratori che hanno costruito una verità fittizia sull'autobomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, cambiando la storia d'Italia. Dopo anni di indagini la procura di Caltanissetta è convinta che in cella ci siano otto ergastolani estranei a quell'attentato. E che altri nomi siano sfuggiti finora alla giustizia: come quello di Giuseppe Graviano, il regista dell'attacco allo Stato con gli ordigni di Roma, Milano, Firenze. Il procuratore generale Roberto Scarpinato fra pochi giorni depositerà alla Corte d'appello di Catania un provvedimento in cui affronterà il problema dei detenuti-innocenti e una memoria per la revisione del processo. Il capo dei pm nisseni, Sergio Lari, con il pool di magistrati impegnati su questa inchiesta ha ricostruito tutte le fasi dell'attentato. Un lavoro meticoloso, eseguito dagli investigatori del centro operativo Dia di Caltanissetta, che ha svelato retroscena inquietanti.

Enzo Scaratino e Salvatorte Candura, i due falsi pentiti che con le loro accuse hanno costruito le condanne, non avevano interesse a mentire. All'epoca non rischiavano pesanti condanne e non avevano bisogno di offrire rivelazioni in cambio di sconti di pena. Secondo la nuova istruttoria, qualcuno li ha introdotti e istruiti. Perché c'è stato questo depistaggio? E soprattutto chi lo ha ordinato?

Due le ipotesi. Qualcuno tra gli investigatori ha giocato sporco per fare carriera. Oppure volontà superiori hanno deciso di sviare le indagini per proteggere i mandanti occulti. Accusando Pietro Aglieri e il suo clan, sono stati tenuti fuori come esecutori i Graviano: quelli in rapporto con i servizi segreti deviati e la politica. Un depistaggio. Gli inquirenti ipotizzano che "non solo è una storia di famiglia interna alla mafia ma anche alle istituzioni". Ed anche i grandi boss hanno deciso per la prima volta di parlare di questa vicenda con i magistrati. Ecco la sintesi dei loro verbali.


Carlo Greco

"Non sono un animale e nemmeno un santo. Ma non voglio pagare per gli errori che non ho fatto. Su questa strage voglio che si faccia luce, per me, per i miei figli e per la giustizia". Parla ai pm per la prima volta il boss della famiglia di Santa Maria del Gesù, il "macellaio" Carlo Greco, 54 anni, detenuto dal luglio 1996 dopo una lunga latitanza. Ha sulle spalle quattro ergastoli, due dei quali per le stragi di via D'Amelio e Capaci: non è un pentito, e porta ancora sul corpo i segni del passaggio nel carcere durissimo di Pianosa. Considera "un'ingiustizia" la sua condanna e quella dei suoi picciotti per l'attentato a Borsellino. E per questo motivo il fedelissimo del padrino Pietro Aglieri si apre ai magistrati, ammettendo di far parte della cosca di Santa Maria del Gesù, senza però mai confermare il suo ruolo. Greco rivela di aver svolto "indagini difensive" dopo l'arresto di Enzo Scarantino, il ladro di auto che lo chiamò in causa per l'uccisione del giudice. "Eravamo stupiti perché sapevamo che Enzo non aveva lo spessore per commettere questi crimini. Capimmo subito che qualcuno voleva addossarci colpe non nostre". La mafia indagò e i boss vicini ad Aglieri scoprirono, come afferma Greco, che "Scarantino il giorno dell'attentato era in un albergo con una donna, e non in via d'Amelio come aveva detto ai magistrati. Delegammo Giuffré ad acquisire i documenti che avrebbero portato a smentirlo e lui ci riferì che tutto era a posto. Ma i documenti non arrivarono...". Adesso i pm hanno scoperto che Scarantino era un falso collaboratore di giustizia. "Se dopo la strage hanno gioito o brindato non lo so, ma è andata a finire che chi lo ha fatto oggi è fuori, libero, e chi non ha brindato ne stiamo pagando le conseguenze". Nel suo italiano spesso stentato, il boss sottolinea una questione di grande rilevanza: i segreti sulla politica taciuti da Vittorio Mangano, lo stalliere assunto ad Arcore da Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi, e dal suo padrino Salvatore Cancemi. Sostiene che Cancemi, poi diventato collaboratore di giustizia, è rimasto in silenzio su molte cose. "Sono sicuro che Mangano che era un soldato avrà riferito fatti a Cancemi che era il suo capo. Ed è una regola che al proprio boss si deve dire la verità". Per far comprendere la legge di Cosa nostra aggiunge: "Cancemi conosce molto sulle cose che sa Mangano. Perché se io ho un contatto con un esponente politico o magistrato, al mio capo Aglieri lo devo informare...". Cancemi è morto a gennaio, tre mesi dopo l'interrogatorio di Greco; Mangano invece è deceduto dieci anni fa: qualunque segreto è stato sepolto con loro.



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