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21/02/2012 09:43:34

Il Dio che cambia con noi

Inutile sottolineare come in molte realtà religiose, ieri come oggi, l’atteggiamento assunto da Giobbe verrebbe qualificato come presuntuoso, arrogante, ribelle: ed è proprio quanto, in sostanza, gli rimproverano gli amici, strenui sostenitori della teologia tradizionale, che propugnava la cosiddetta tesi della retribuzione, secondo cui la sofferenza patita altro non è che la conseguenza della trasgressione ai comandi di Dio. Giobbe non ci sta: sa di aver trascorso la sua vita osservando fedelmente lo spirito dei precetti contenuti nella Torah e sa, persino, che i suoi stessi amici sono a conoscenza della cosa: con che coraggio, adesso, gli danno contro, lo accusano? Questo loro giocare a fare «gli avvocati di Dio» Giobbe lo trova meschino, spregevole: la loro non è che viltà, rifiuto di riconoscere che quanto sta accadendo non può avere alcuna giustificazione. Ma gli amici teologi, naturalmente, difendono la tradizione: non è ciò che credono a dover cambiare attraverso l’incontro con una vita piena di contraddizioni ed impossibile da incasellare entro schemi prefissati;  piuttosto, è la vita a dover obbedire a questi schemi, a dovervisi adeguare. La teologia non può essere inesatta, non contempla imprecisioni, è perfettamente congruente; al limite è la vita che testardamente non si conforma alla verità che il pensiero religioso stabilisce e spiega senza sbavature. Non sto facendo dell’ironia; se ci guardiamo intorno, questo è il modo in cui molti, anche (se non soprattutto) fra i teologi, concepiscono la fede: una sorta di luogo delle verità incontestabili, di fronte alle quali non la razionalità, ma persino la ragionevolezza sarebbe chiamata a cedere, naturalmente senza discutere, poiché con i depositari della verità, da che mondo è mondo, non è dato di potersi confrontare. Giobbe si trova in questa situazione: intende contestare la teologia tradizionale alla luce di una vita che la contraddice e la eccede, che di certo non le obbedisce come ad una legge inconfutabile. Giobbe propone una teologia nuova, un modo diverso di guardare a Dio e a quella vita che da Dio proviene e a Dio ritorna: e lo fa radicandosi nella medesima tradizione a cui giurano cieca fedeltà i suoi amici; tradizione che Giobbe, però, intende rinnovare, attualizzare, reinterpretare. Da buon ebreo, Giobbe sa di avere la libertà per poterlo fare. A ciò che noi chiamiamo Scritture, l’ebraismo, dal quale discendiamo, affida il nome di Miqra, che, in realtà, significa lettura: ciò che è necessario fare con la tradizione che ereditiamo è leggerla assai più che fissarla per iscritto. Non che quest’ultima cosa non serva: al contrario; diviene però rischiosa quando si cristallizza, quando rispetto ciò che è fissato non è più possibile intervenire, ma soltanto acconsentire. Ciò che è scritto è scritto: ma è scritto perché venga letto, interpretato, discusso, ridetto. Ecco perché nella tradizione ebraica la Miqra viene letta sempre con qualcuno: perché il confronto è indispensabile e la solitudine porta inevitabilmente alla presunzione di certezza. Giobbe fa questo con gli amici: prova a discutere con loro il significato della tradizione, a vedere se una teologia largamente condivisa si possa mettere in questione. Gli amici si rifiutano: osservano la situazione di Giobbe con distacco, la considerano spiegabile attraverso il loro sapere teologico, che hanno acquisito una volta per tutte e che rappresenta il loro punto fermo, inamovibile. Questo punto cardine, però, non è Dio: è il loro concetto di Dio, che è ben altra cosa. Anche Giobbe, naturalmente, possiede un’immagine di Dio: probabilmente, all’inizio, essa è molto simile a quella che ne hanno i suoi amici. Ma a Giobbe accade di incontrarsi, anzi, di scontrarsi, con la vita e le sue contraddizioni: e di fronte a ciò egli comprende che a cambiare non può certo essere la realtà, ma soltanto il concetto di Dio. Gli amici parlano senza lasciarsi interpellare dal dramma dell’incomprensibilità dell’esistenza: Giobbe lo vive sulla propria pelle e si rifiuta di offrire a Dio una giustificazione a buon mercato. Dio deve rispondergli: fino a quando non lo farà, Giobbe non metterà a freno la propria lingua. Nessuno, del resto, può impedirglielo: non gli amici; ma nemmeno, in fin dei conti, Dio. Frustrato da un dialogo che non procede per assenza di sensibilità e rigidità d’intelletto, Giobbe decide di chiudere il confronto con questi amici troppo sicuri di sé e passa a rivolgersi all’unico dal quale pretende udienza, a quel Dio che nel dramma scompare, ostinandosi, oltretutto, a tacere. Giobbe inoltra a questo Dio una proposta chiara, offrendogli persino due possibilità di raffronto:  «Interrogami, dunque: ed io risponderò. Oppure sarò io a parlare: e Tu mi risponderai». A Te la scelta: puoi condurre l’interrogatorio o ribattere a quanto ho da dirti. Non lo chiede, Giobbe: lo intima. Una volta ancora, si affaccia lo spettro, tanto caro a molti teologi, della presunzione: «Ma come osi? Tu, misero mortale, chiami in causa Dio con quest’arroganza!». Molta (cattiva) religione ha inculcato per secoli la sudditanza, che ha generato nei credenti una predisposizione alla docilità arrendevole: ma questa è tutt’altra cosa dall’umiltà tanto sbandierata; anzi, è la sua contraffazione. Giobbe non tace; ma non per questo è un arrogante: si presenta al cospetto di Dio come il discepolo dinanzi al maestro, senza spavalderia, ma, anche, senza timori reverenziali. Gli dice: «Ammaestrami. Oppure, se preferisci, impara con me». Questa, infatti, è la corretta relazione che dovrebbe intercorrere tra il maestro ed il discepolo, che stanno l’uno di fronte all’altro ed insieme crescono in sapienza. Non è un caso che l’ebraico possegga una sola radice per due verbi che noi occidentali, sovente, non soltanto distinguiamo, ma dissociamo: lamar, in ebraico, significa sia insegnare che imparare. Perché i due ruoli sono inscindibili: nessuno, del resto, può essere maestro se non ha almeno un discepolo. E con ciascuno dei suoi discepoli il maestro discute, dunque cresce, quindi  cambia. Dio non si vergogna di cambiare con noi: il rifiuto di scoprire tratti nuovi del Suo volto è più nostro che Suo. Dio cambia perché con noi è stretto nel laccio dell’amore, che tutto trasforma: anche Dio. L’amore, infatti, nel linguaggio biblico, è conoscenza, la quale, però, non ha nulla di teorico, di astratto, ma è, letteralmente, un fare esperienza. Nella relazione che ci unisce visceralmente e vicendevolmente, Dio fa esperienza di noi e noi di Dio. Non ci sono restrizioni in questa «corrispondenza d’amorosi sensi»: c’è soltanto lo sconfinare reciproco, il ritrarsi feriti, l’amarezza ed il trasporto. C’è lo starsi di fronte, il conoscersi mai appagato, sempre nuovo. C’è la delusione sempre alle porte, il litigio e il chiarimento, la distanza e il riavvicinamento. C’è l’attesa, la speranza, lo sconforto, la lotta, la carezza. C’è l’amore. Soltanto l’amore.   Marsala, Domenica 19 Febbraio 2012 - Pastore Alessandro Esposito